CRONACA NERA: IL PROCESSO DELLA DOMENICA (2)

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Rimpiattino, rimpiattarello, nascondino, nasconderello.

Piatta-cu-cu o ripostiglio, lo chiamavano i bambini all’Incisa.

Basta essere in due a giocarci, ma è meglio essere in tanti.

Quella domenica pomeriggio dovevano esserci Narciso Biagi, Alpinolo, Cecchino…,

la Beppa di Baracchino e altri dell’età di Amerigo o poco più.

Uno conta e non guarda, finché gli altri sono nascosti e lui poi va a cercarli.

A chi toccasse, Amerigo non sapeva bene. Aveva capito però che c’erano le

sue sorelle maggiori – lui aveva 9 anni -, la Beppa e la Lina già nascoste da

qualche parte nello stanzino della bottega. Doveva entrare anche lui, presto,

se voleva giocare.

Voleva o non voleva?

L’importante è un buon nascondiglio. A volte, però, uno ci sta rimpiattato

così bene che non guarda, non può neppure capire cosa succede fuori, intorno.

Se chi lo deve scoprire stia avvicinandosi senza far rumore e lo stia per pigliare.

O se invece sia proprio il momento giusto per schizzar via. Il difficile è far

capolino. Bisogna vedere, senza essere visti. Qualcuno, talvolta non s’azzarda mai

ad uscirne; sta rintanato come se fose al sicuro.

E invece lo sa, si sa che non è vero.

Più a lungo rimane fermo, al coperto, col cuore che batte forte, più aumentano le

probabilità di essere acchiappato. Ma a comportarsi così, di solito, sono quelli che

non sanno correre svelti, i più paurosi; oppure i più piccini. A volte ci sono i grandi

che li aiutano.

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Se c’è chi conosce meglio degli altri il posto dove si gioca, allora lui è avvantaggiato,

perché può trovare dei ripostigli che nessuno si immaginerebbe neppure.

Carlino, detto il Pelato, conosceva bene la bottega. Per forza; era lì che lavorava,

al n. 43 della strada maestra. Al 45 abitava Amerigo, che quel pomeriggio entrò nel

fondo, come tante altre volte, per giocare.

…E io andai in bottega con Carlino, Carlino chiuse l’uscio di fuori con il catenaccio

di dentro, e chiuse anche la finestrina con le imposte di dentro che guarda il

vicolo stradale. Quando fui in bottega così al bujo come di sera, Carlino mi

condusse nello sferrato accanto al muro dalla parte della finestra, ci aveva fatto

una buca, ma non so quando, mi disse – va qui dentro – ed io ci andai, e lui mi

accomodò disteso voltato in giù con la bocca e con la pancia e mi disse – ora ti

copro col grembiule -, ma invece non mi coprì col grembiule, ma mi vuotò

addosso un corbello di rena, ma io alzai la testa e andai per scappare, e gridai,

ma lui mi prese con una mano il viso coprendomi la bocca, perché non gridassi

e con l’altra mano mi prese il collo per strozzarmi, e mi voleva strozzare, ma

io continuai a gridare, e Carlino allora mi trascinò nello stanzino, che è un

sotto scala e mi teneva con tutte e due le mani per il collo e da ultimo non potevo

più respirare, né vociare, ed ero in terra perché mi ci aveva buttato Carlino e

mi ammazzava. Io lo mordevo nelle dita delle mani, ma non mi potevo più

difendere, perché ormai ero in terra, ma vennero a liberarmi di fuori la Gente,

e sentivo rompere la porta del corridojo, e l’aprirono, e vennero dentro diversi

e c’era anche mio padre, ma allora Carlino mi lasciò andare, e aperta la porta

fuggì in casa, e me mi portarono via, ed ero tutto sangue nella faccia, perché

Carlino mi aveva sgraffiato nel viso.

(P. Guarnieri)

 

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CRONACA NERA: IL PROCESSO DELLA DOMENICA

Un altro concittadino inquisito in:

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All’ex monastero delle Murate, a Firenze, la mattina di giovedì 10 ottobre 1895,

dopo le undici, due guardie si fecero aprire il pesante portone ed entrarono nel

carcere. Quando ne riuscirono, poco dopo, in mezzo a loro cammiava ‘un ometto

di bassa statura’, vestito di scuro, che si asciugava continuamente con un fazzoletto

la testa calva.

Aveva appena finito di pagare, come si dice, il suo debito alla giustizia.

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Vent’anni e più di casa di forza: meno di due scontati nell’ergastolo fiorentino,

quasi dodici nella fortezza di Volterra e gli ultimi sette galeotto all’isola di Capraia,

da cui era ritornato allora.

Ormai, dunque, Callisto Grandi era libero.

Aeva 44 anni, la madre ancora viva al paese, fratelli, sorelle e molti nipotini, alcuni

dei quali non l’avevano mai conosciuto. In tasca possedeva 700 lire che s’era guadagnato

in galera facendo il fabbro; ma per sé ne avrebbe tenute solo 38. Il resto del gruzzolo

voleva donarlo – scrisse il cronista de ‘La Nazione’ per i suoi lettori – a sette piccole

orfane di un fratello; che in realtà morto non era, né aveva tante figlie. Oppure li

aveva già spediti a delle zie; come appreso quanti seguivano le notizie sul ‘Fieramosca’

– Giornale del popolo -.

In ogni caso, l’ex detenuto sperava di poter trovare presto un impiego, perché di

lavorare non aveva paura ed un mestiere lo sapeva. S’era rivolto già, per questo,

alla società di patronato per i liberati del carcere.

Dove e quando si sarebbe sistemato, però, a quel punto era difficile dirlo.

La questura si stava interessando affinché venisse ammesso, almeno per un po’,

alla Pia Casa di Lavoro. Ma il direttore Carlo Peri quella mattina non lo ricevette

neppure, e perciò gli agenti Rosso e Ridolfi, che l’avevano accompagnato all’ospizio

di Montedomini, dovettero riportarlo via.

Strada facendo, da via Ghibelina a via Malcontenti, nel quartiere di Santa Croce,

avevano incontrato un tale detto Gobbino dell’Incisa, facchino di professione.

Si guardarono.

Si riconobbero.

Il grandi fece cenno al suo compaesano di stare zitto, ma costui prese subito a

indicarlo ai passanti. In breve tempo si sparse la voce. E il non più prigioniero,

sempre accompagnato dalle due guardie e dal brigadiere Miniati, fu seguito

per tutte le strade da moltissima gente, la maggior parte ragazzi che, – aggiungeva

il cronista de ‘La Nazione’, – lo guardavano terrorizzati.

Fu questa la sua prima passeggiata.

Presto conclusa, verso mezzogiorno, in via dei Ginori. Alla questura centrale, lo

presero e lo rinchiusero in una camera di sicurezza.

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– Dove mai dovrà andare questo disgraziato?

Si domandava l’anonimo reporter del quotidiano fiorentino.

Chi aveva scontato la pena sentenziata dal tribunale, aveva poi il diritto di usufruire

della propria libertà; ed il Grandi lo rivendicava.

Ma il fatto era che al suo borgo d’origine – Incisa nella Val d’Arno – proprio non

si voleva ch’egli tornasse, e c’era dunque una grande agitazione.

Lo stesso consiglio municipale riteneva opportuno che costui venisse per sempre

allontanato da quei luoghi in cui era ancora tristissimo il ricordo del truce misfatto

e delle sue povere vittime.

A portavoce della generale inquietudine s’era fatto sentire, già da una settimana

innanzi, il quotidiano dei moderati toscani. Con toni veementi, ‘La Nazione’ aveva

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sollecitato le autorità cittadine affinché provvedessero, in qualche modo. Il ritorno

di questa belva umana all’Incisa non è opportuno per qualsiasi rispetto; per

tutti esso costituiva una causa di spavento, e, specialmente, nei padri e nelle madri.

Che sarebbe accaduto se costui fosse stato preso di nuovo dalla mania di uccidere

i bambini?

Ed era una vera e propria mania, – diagnosticò il giornalista, – perché Carlino Grandi…

li attirava in agguato con molta industria, li uccideva e li seppelliva sotto lo sterrato

della sua bottega.

Cinque ne aveva strangolati, mal ricordò l’articolo del 4 ottobre 1894, e fu scoperto

mentre aveva già quasi finito di uccidere il sesto.

– E’ vero che ho ammazzato quattro ragazzi, – dichiarò l’omicida intervistato da

‘La Nazione’, – schiacciando loro la testa con una ruota….quindi gettando loro

addosso un palmo di terra. E al cronista cui sembrava pentito, il grandi aggiunse:

Ero anche minchione…se li sotterravo a tre metri di profondità non li trovavano

davvero!

L’ultimo ragazzo che credo ora faccia il prete o il frate non lo presi bene con la

ruota; questa mi sgusciò di mano e lo ferii alla guancia. Mentre stavo per finirlo,

una donna, anzi un donnone, vide tutto da un buco della porta della mia bottega

e così…

L’assassino fu scoperto, il bambino salvato.

(P. Guarnieri)

 

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