LA FINE DEL LAVORO 3

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Si è scritto e letto molto sui circoli di qualità, sul lavoro di gruppo e sulla maggiore 

partecipazione dei lavoratori sul luogo del lavoro. 

Poco o nulla si è detto e scritto, invece, sulla dequalificazione del lavoro, sui ritmi di

produzione sempre più accelerati, sui maggiori carichi di lavoro e sulle nuove forme

di coercizione e di sottile intimidazione utizzate per costringere il lavoratore a sottomettersi

alle esigenze della produzione post-fordista.

Le tecnologie dell’informazione sono progettate per eliminare le ultime, pallide vestigia 

del controllo che l’uomo ha sul processo produttivo, attraverso la programmazione di

istruzioni dettagliate direttamente nella macchina, che è così in grado di eseguirle alla

lettera. 

Il lavoratore viene privato dalla capacità di esercitare il libero arbitrio, sia in fabbrica sia

negli uffici, e del controllo sul risultato, che viene pianificato in anticipo da esperti 

programmatori. Prima del computer, il manager produceva istruzioni dettagliate in forma

di ‘schedulazioni’ che ci si aspettava venissero rispettate dai dipendenti; poichè l’esecuzione

dell’incarico era nelle mani dei lavoratori, era possibile introdurre nel processo un elemento

soggettivo: nel mettere in atto la pianificazione del lavoro, ogni lavoratore dava la propria

impronta personale al processo produttivo. Il passaggio della produzione pianificata alla

produzione programmata ha profondamente alterato il rapporto tra lavoratore e lavoro;

oggi un numero crescente di lavoratori agisce esclusivamente come osservatore, incapace di

partecipare o intervenire sul processo produttivo: qualunque cosa accade in fabbrica o nell’

ufficio è già stata pre-programmata da un’altra persona che potrebbe non partecipare mai 

alla realizzazione del futuro che ha creato.

(J. Rifkin, La fine del lavoro)

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LA FINE DEL LAVORO 2

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Quasi tutti i leader della comunità economica e la maggior parte degli economisti

ortodossi continuano ad affermare che i drammatici cambiamenti tecnologici della

Terza rivoluzione industriale avranno un effetto a cascata, riducendo il costo dei 

prodotti, stimolando una crescente domanda di consumo, creando nuovi mercati e

offrendo a un numero crescente di persone un posto di lavoro meglio retribuito nei

settori dell’alta tecnologia. Comunque, per un numero sempre più grande di disoccupati

o sottoccupati, il concetto di effetto a cascata è una magra consolazione.

Alla USX Corporation, i dipendenti hanno sperimentato in prima persona l’effetto a 

cascata della tecnologia. Il 26 marzo 1991 la USX – uno dei maggiori produttori di 

acciaio negli Stati Uniti ha annunciato il licenziamento dei 2000 dipendenti dello 

stabilimento di Fairless sul fiume Delaware, in Pennysylvania. 

Benché gli azionisti abbiano tratto profitto dalle nuove tecnologie e dai balzi in avanti

della produttività, i benefici non sono scesi ‘a cascata’ verso il lavoratore medio. 

Durante gli anni 80, la retribuzione oraria media reale nel settore industriale è 

diminuita da 7,78 a 7,69 dollari. Alla fine di quel decennio, circa il 10% dei lavoratori

americani era disoccupato, sottooccupato o occupato a tempo parziale in 

mancanza di un impiego a tempo pieno, se non era così scoraggiato da non cercare

più un posto di lavoro. 

Tra il 1989 e il 1993, nel settore manifatturiero più di 1,8 milioni di occupati sono stati

licenziati, nella maggior parte vittime dirette o indirette dell’automazione: dirette 

nel caso in cui l’automazione dei processi abbia avuto luogo nelle imprese in cui erano

impiegati; indirette nel caso in cui le nuove tecnologie, applicate in imprese straniere

e concorrenti, abbiano costretto le aziende americane a ridimensionarsi e a licenziare.

Di tutti coloro che hanno visto sacrificare il proprio lavoro sull’altare dell’automazione,

solo un terzo ha potuto trovare una nuova riduzione media nella retribuzione del 20%.

I dati ufficiali sulla disoccupazione sono spesso fuorvianti e mascherano la reale

dimensione dell’attuale crisi accupazionale. 

(J. Rifkin, La fine del lavoro)

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LA FINE DEL LAVORO 1

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Mentre i capi del movimento per i diritti civili, già negli anno 60, iniziarono a lanciare

segnali d’allarme per le conseguenze dell’automazione sulla comunità afroamericana,

altri ne individuarono le più ampie implicazioni per la società nel suo complesso.

Nei primi anni 60 emerse dunque un dibattito nazionale sui probabili effetti dell’

automazione sull’economia e sull’occupazione, alimentato, in gran parte, dalla crescente

perdita di posti di lavoro nella comunità nera.

Nel marzo 1963, un gruppo di eminenti scienziati, economisti e accademici guidati da

J. R. Oppenheimer, direttore dell’Istituto di studi avanzati presso la Princeton University,

fece pubblicare sulle pagine del ‘New York Times’ una lettera aperta al presidente,

per metterlo in guardia circa i pericoli dell’automazione per il futuro dell’economia

americana e per richiedere un confronto a livello ufficiale sul tema. La commissione

sulla triplice rivoluzione – che ricavava il proprio nome dall’obiettivo che le era stato

posto di analizzare i tre nuovi cambiamenti epocali che stavano avendo luogo nella

società: la rivoluzione cibernetica, quella degli armamenti e quella dei diritti umani-

sottolineò che le nuove tecnologie cibernetiche stavano mettendo in moto un cambiamento

nel rapporto tra reddito e lavoro.

Gli autori del rapporto puntualizzavano che, fino a quel preciso momento storico,

‘ le risorse sono state sempre distribuite sulla base del principio del contributo alla

produzione’; questa relazione storica veniva ora messa in pericolo dalle nuove 

tecnologie computerizzate. 

“E’ iniziata una nuova era di produzione. I suoi principi di organizzazione sono diversi 

da quelli dell’era industriale quanto questi ultimi lo erano da quelli dell’economia 

agricola. La rivoluzione cibernetica trae la propria linfa vitale dalla combinazione del

computer con la macchina automatica autoregolantesi; da ciò risulta un sistema di 

quasi illimitata capacità produttiva che richiede sempre meno intervento di lavoro

umano”.

La Commissione enfatizzava il fatto che ‘i negri sono il gruppo più duramente colpito tra

i tanti che vengono spinti ai margini del sistema economico dalla cibernetizzazione’, 

ma prediceva che – con il passare del tempo – la rivoluzione dei computer avrebbe

coinvolto un numero sempre più alto di funzioni produttive dell’economia, lasciando

milioni di individui senza lavoro. La Commissione sollecitava il presidente e il Congresso

a prendere in considerazione la possibilità di garantire a ogni cittadino ‘un reddito adeguato

come diritto acquisito’, come un modo per distribuire sovvenzioni ai milioni di persone 

rese inutili dalle nuove tecnologie ‘laborsaving’.

I segnali d’allarme lanciati dalla Commissione vennero raccolti dalla Casa Bianca.

Nel luglio 1963 il presidente Kennedy si espresse a favore della costituzione di una 

Commissione nazionale sull’automazione (il 22 novembre 1963 J.F.K. fu ucciso a Dallas

con tre colpi di arma da fuoco). 

(J. Rifkin, La fine del lavoro)

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IL POTERE DELLA MONTAGNA…e il potere…

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Liam si era messo in cammino da solo.

Se n’era semplicemente andato! e d’improvviso era

già in alto sui pendii. Aspetta! Insomma aspetta!

Ehi!, se n’era semplicemente andato,

da un momento all’altro

e durante quel fuggevole lasso di tempo

nel quale ancora una volta ero sprofondato

negli occhi di Nyema e lì avevo riposato per un attimo,

custodito, inattaccabile, protetto

da tutto ciò che lassù, alto

sopra le distese di nebbia mattutina e altissimo

sopra i pascoli estivi del clan poteva minacciarmi…

Se n’era andato, così! E già era ridotto alle dimensioni

di una figura minuscola, fiocamente luccicante

nei toni azzurro chiari del suo piumone,

che saliva nell’ombra portata di un enorme blocco di roccia:

Liam! Pezzo di idiota. E aspetta, insomma!

Era impazzito?

Quando emersi dagli occhi di Nyema e vidi

che Liam era già quasi scomparso,

quando gridando il suo nome

mi rivolsi all’altitudine accecante

e tentai di seguirlo,

rapido quanto lo consentivano il peso

dell’attrezzatura e la pendenza

sentii di nuovo alle mie spalle

le risate dei pastori

(adesso non stavano vedendo per davvero

come un pazzo correva dietro a un altro?),

ma non volli girarmi verso la loro derisione,

dunque non mi girai nemmeno

verso Nyema, che solo molto più tardi

vidi ancora in piedi davanti alla nostra tenda,

così in basso che riuscii a distinguere

soltanto la sua figura, ma non il suo viso, i suoi occhi,

Liam! Dai, aspetta!

(C. Ransmayr, La montagna volante)

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ALBERI SECOLARI DEL BOSCO

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Che sonno profondo questa notte nel cuore dei monti, sotto gli alberi e le stelle,

cullati dal solenne rimbombo delle cascate e dalle innumerevoli piccole voci

gentili che in dolce armonia mormorano parole di pace!

E’ la nostra prima vera giornata montana, calda, limpida, quieta.

Quanto sconfinata sembra, quanto serenamente selvaggia!

Faccio fatica a ricordare l’inizio.

Lungo il fiume, sui dossi, al suolo, nel cielo la primavera è all’opera con gioioso

entusiasmo, nuova vita, nuova bellezza che si dispiega e si libera in gloriosa

esuberante prodigalità: nuovi uccelli nei nidi, nuove creature alate nell’aria, nuove

foglie, nuovi fiori che s’aprono e brillano e gioiscono ovunque.

Gli alberi presso il campo sono fitti e forniscono ombra abbondante a felci e gigli,

mentre più in là i raggi del sole raggiungono il suolo quasi ovunque, destando erbe

e fiori in gloriosa schiera, alto bromo ondeggiante come bambù, stellate Composite,

Monardella e ancora Calocorthus, lupini, Gilia, viole, lieti figli, tutti della luce.

La giornata è molto calda.

L’acqua per il campo è fornita dal fiume, la prendiamo in una vasca rocciosa sotto un

pittoresco tratto di rapide, dove la corrente è assai mossa e vivace, senza tuttavia precipitare

in un polverio di spume.

La roccia qui è ardesia nera che emerge dal letto del torrente in masse tondeggianti levigate

dalla corrente, in contrasto con il grigio e il bianco dell’acqua che scivola e brilla e precipita

in falde di merletto, in un intrecciarsi e confluire di piccoli rivoli.

Cespi di falasco crescono sulle rocce affioranti con bell’effetto decorativo, le lunghe

foglie elastiche arcuate in ogni direzione, le punte delle più lunghe a sfiorare la corrente

che svaria tra i sassi in minuscoli rivi.

E fili d’acqua e righi d’erbe concorrono a render più bello il torrente.

Non è tutto, ché su alcuni isolotti rocciosi la sassifraga gogante, saldamente aggrappata

alla pietra, mette in mostra le sue larghe, rotonde foglie ombrelliformi, in vistosi

ciuffi isolati, oppure elevandosi sopra i cespi del falasco.

I fiori di questa specie sono purpurei e formano alti recemi glandolosi che sbocciano

prima dell’apparire delle foglie.

I carnosi rizomi aggrappandosi alla roccia nelle fessure e nei buchi consentono alla

pianta di resistere alle piene occasionali. Specie davvero notevole, usata dalla Natura

per ornare i tratti più belli di questi limpidi freschi torrenti.

Nei pressi del campo gli alberi intrecciano i rami di una sponda all’altra del torrente,

formando una fronzuta galleria dove filtra una morbida luce diffusa.

Il giovane fiume gorgheggia e scintilla come una creatura viva e felice.

(John Muir, La mia prima estate sulla Sierra)

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LINGUAGGIO

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Il sole ci parla con la luce,

col profumo e il colore parla il fiore,

con le nuvole, con la neve e la pioggia

parla l’aria.

Nel tempio del mondo

vive un impulso che mai si placa

a infrangere il mutismo delle cose

con parola, gesto, colore, suono

per esprimere il mistero dell’Essere.

Qui scorre la limpida fonte delle arti,

la realtà lotta con la parola,

la rivelazione, lo spirito, e chiara annuncia

da labbra umane conoscenza eterna.

Tutto il vivente aspira a un linguaggio,

in parola e numero, colore, linea, suono

la nostra tensione intorpidita si risveglia

e costruisce, sempre più alto, il trono del senso.

In un fiore rosso e azzurro,

nelle parole di un poeta, si volge

all’interno l’edificio della creazione

che ha sempre nuovo inizio e mai è compiuto.

E dove la parola e suono si associano,

dove risuona il canto e si sviluppa l’arte,

ogni volta viene ricostituito

il senso del mondo, di tutto ciò che esiste,

e ogni canzone e ogni libro

e ogni quadro è un disvelamento,

un nuovo, ennesimo tentativo

di compiere l’unità dell’esistente.

Ad accedere a questa unità

vi alletta la poesia, la musica,

per comprendere quanto il creato è multiforme

basta un unico sguardo riflettente.

Quello che noi troviamo d’inesplicato

diviene chiaro e semplice nella poesia:

il fiore ride, la nuvola piove,

il mondo ha senso, ciò che è muto parla.

(Hermann Hesse)

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INTERMEZZO POETICO

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Dietro la nave, dietro i venti che fischiano,

Dietro le vele bianco-grigie tese ai pennoni e alle corde,

Miriadi di onde si accalcano, sollevano il collo,

Onde dell’oceano gorgoglianti, effervescenti,

  gioiosamente scrutanti,

Onde, onde ondulanti, liquide, emule, mutevoli onde,

Verso quella corrente vorticante, ridenti e spensierate,

  curvando,

Dove la grande nave veleggiando e bordeggiando

  smosse la superficie,

Onde più grandi e più piccole, che fluiscono

  vogliosamente nella distesa dell’oceano,

Scia della nave quando è passata, allegra e scintillante

  sotto il sole,

Corteo disperato di fiocchi di spuma e dei più vari

  frammenti,

Che segue la nave rapida e maestosa, scortandola nella

  sua scia.

(Dietro la nave, Walt Whitman)

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IL VILLAGGIO 2

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C’erano insegne che pendevano da tutte le parti, per adescare il viaggiatore; alcune

tentavano di prenderlo per la gola, come le insegne della taverna e della cantina;

altre per la fantasia, come le insegne dei negozi di stoffe e gioielli; altre ancora di

prenderlo per i capelli, o per i piedi, o per la camicia, come l’insegna del barbiere,

del calzolaio o del sarto. Inoltre, c’era uno stabile e ancor più terribile invito a entrare

in visita in ognuna di queste case, dove la compagnia era sempre attesa.

Di solito evitavo questi pericoli meravigliosamente: o procedendo alla méta con

coraggio e a precipizio, come si raccomanda a quelli che devono fare la corsa al

palo, oppure tenendo i miei pensieri su cose elevate, come Orfeo, il quale ‘cantando a

voce spiegata le lodi degli dei sulla sua lira, coprì le voci delle Sirene e si tenne

lontano dal pericolo’.

Talvolta sfrecciavo via all’improvviso e nessuno poteva dire dove me ne fossi andato,

ché non badavo molto essere aggraziato nei movimenti e non esitavo mai di fronte

al buco della siepe. 

Era piacevolessimo, quando restavo in città fino a sera, lanciarsi nella notte, specialmente

se il tempo era buio e tempestoso e da qualche brillante salotto del villaggio, o da 

qualche biblioteca, alzare le vele, con un sacco di farina di segala o di granturco 

in spalla, verso il mio porto tranquillo, in mezzo ai boschi, dopo avere chiuso tutto

in coperta, ed essermi ritirato sottocoperta con una gioiosa ciurma di pensieri, lasciando

fuori solo il mio uomo esterno, al timone, o persino legando il timone, quando veleggiavo

senza intoppi. 

Avevo (ed…ho…) molti allegri pensieri, presso il fuoco in cabina, ‘mentre veleggiavo’.

Non fui mai tormentato o spinto fuori rotta qualunque tempo facesse, sebbene incontrassi

certe violente tempeste. 

E’ più buio di quanto si creda, nei boschi, persino nelle notti normali. 

Spesso dovevo alzare lo sguardo alle zone di cielo tra le cime degli alberi, sopra il sentiero,

per sapere dove mi trovavo, e dove non c’era il sentiero carraio dovevo cercare con i piedi

la leggera traccia che avevo lasciato le altre volte che ero passato; oppure, dovevo guidarmi

con certi alberi che conoscevo e sentivo con le mani, per esempio passando tra due pini a

non più di diciotto pollici di distanza l’uno dall’altro, in mezzo ai boschi, invariabilmente,

nella notte più fonda.

(Thoreau, Walden o vita nei boschi)

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INTERMEZZO DINAMIDARDO

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Tre ponti per attraversare un fiume?

Consultate una cartina. Quando la diga del Glen Canyon bloccò il Colorado, le acque

tornarono indietro sommergendo Hite, il molo del traghetto e cinquanta chilometri

di canyon più su del traghetto. Il posto migliore per traversare il fiume (oggi il lago

Powell) era risalire la corrente fino al Narrow Canyon. Per raggiungere il ponte sul

Narrow Canyon era necessario passare il ponte sul White Canyon a est e quello sul

Dirty Devil Canyon a ovest.

Totale, tre ponti.

Hayduke e Smith smisero di ispezionare il ponte sul White Canyon.

Questo, come glia altri due, era ad arco e di proporzioni massicce, costruito per durare.

Le teste dei bulloni sulle aste diagonali della travata erano grandi come il pugno di

un uomo.

George Hayduke si mosse lentamente per alcuni minuti sotto le imposte ad arco, dove

i nomadi, a dispetto della recentissima costruzione del ponte, avevano già lasciato segni

del loro passaggio con scritte di vernice spray sul pilone di cemento ed escrementi, seccati

e rimpiccioliti, nella polvere.

Risalì scuotendo la testa.

– Non lo so, dice, – non lo so. Questo stronzo è davvero grande.

– Ce n’è un altro più grande, dice Smith.

Guardarono giù, oltre il parapetto, sessanta metri più in basso, il corso sinuoso del ruscello

intermittente del White Canyon, rigidamente stagionale.

Le loro lattine di birra veleggiavano leggere come bicchieri di carta nel buio della gola.

La prima corrente estiva le avrebbe trascinate con sé, insieme a tutti gli altri detriti del

genere, fino al bacino artificiale del lago Powell, dove l’immondizia raccolta lungo l’alveo

trovava una sistemazione ideale.

Avanti verso il ponte centrale.

Stavamo scendendo, andando giù, eppure è così grande la scala delle cose qui, così complesso

il terreno, che nè il fiume né il canyon centrale sono visibili fino a che il viaggiatore non giunge

quasi sul bordo del canyon.

Prima videro il ponte, un doppio arco decisamente gradevole che s’innalzava in acciaio

argentato parecchio al di sopra del livello della sua strada. Poi poterono vedere le pareti

stratificate del Narrow Canyon. Smith parcheggiò il camion; scesero e camminarono lungo

il ponte.

La prima cosa che notarono fu che lì il fiume era scomparso.

Qualcuno si era portato via il Colorado.

Questa non era una novità per Smith, ma per Hayduke, che lo conosceva soltanto per

sentito dire, la scoperta che il fiume in realtà era sparito fu come una scarica elettrica.

Al posto del fiume, quello che vedeva era un corpo immobile di liquido verde, morto,

stagnante, spento, con una pellicola di petrolio che galleggiava sulla sua superficie.

Sulle pareti del canyon una patina di limo e sali minerali, come in una vasca da bagno,

ricordava il livello raggiunto dalla piena. 

Lago Powell: bacino artificiale, trappola di limo, serbatoio di evaporazione e discarica

indifferenziata, fogna nazionale di 300 chilometri.

Fissarono giù.

Alcuni pesci morti galleggiavano ventre all’aria sulla superficie oleosa tra bucce d’arancia

e piatti da picnic. Un albero trasportato dall’acqua, un pericolo per la navigazione, sfidava

le leggi della statica in una posizione paurosamente inclinata. Il fetore della decomposizione,

debole ma inconfondibile, saliva per 140 metri fino alle loro narici. Da qualche parte sotto

quella superficie immobile, già dove l’oscuro limo si stava depositando , dovevano ancora

esserci i pioppi sommersi, i rami morti gravati dalle alghe, le loro antiche ginocchia appesantite

dal fango. Da qualche parte sotto il pesante fardello dell’acqua che non va da nessuna parte,

sotto il silenzio, le vecchie pietre del fiume aspettavano la resurrezione promessa.

Promessa da chi?

(Edward Abbey,The Monkey Wrench Gang)

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INTERMEZZO…AGLI UNIVERSI

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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La mente riceve stimoli esterni, luci o colori o forme, freddo o caldo,

tramite segnali che sono originati da strumenti del senso diffusi su

tutto il nostro corpo, occhi, orecchi, pelle.

Tali strumenti percepiscono l’ambiente intorno a noi, analizzano, e

trascelgono e traducono gli stimoli in segnali che vengono inviati ad

aree specializzate del cervello.

La trasmissione non è automatica, in quanto le informazioni acquisite

vengono filtrate e valutate, e questo avviene, per esempio, nel sistema

visivo, dall’occhio sino alle cosiddette zone di arrivo nel cervello.

Zone che non si comportano in modo passivo: esse, infatti, specializzate

per risolvere problemi specifici, oltre che interpretare i dati che pervengono,

scambiano segnali tra loro, ovvero sono connesse reciprocamente.

La visione o il suono o le sensazioni vengono ridotti in molteplici frammenti

e analizzati da più parti dell’organo cerebrale, che perviene ad una

sintesi sulla base di regole o modelli che dipendono dal grado di evoluzione

dell’essere senziente.

Quindi non esiste un’unica prova, e non è possibile raffigurarsi una destinazione

finale di tipo fisico dove possa risiedere l’anima o la mente.

Ma vivere non vuol dire affidarsi soltanto alle impressioni sulla natura: 

“ESISTONO IN NOI MEMORIE ANTICHE, I RICORDI DI QUESTA VITA E DELLE

VITE PRECEDENTI, E DI PIU’, IN UN TEMPO IN CUI LA MATERIA DOVEVA

ANCORA CONDENSARSI IN GALASSIE, E PRIMA DELLA FORMAZIONE DI

QUEST’UNIVERSO, PRIMA DELL’ESPLOSIONE CHE CREO’ SPAZIO E TEMPO.

QUANDO NOI NON ERAVAMO UN’INDIVIDUALITA’.”

E la comprensione del mondo procede, oltre che dalle capacità che sperimentiamo

nel quotidiano, da questa memoria profonda. E la qualità di un essere vivente

discende dalla fusione di quanto noi esploriamo al momento per il mezzo dei

sensi con il fuoco di tutti i passati che pervade i sotterranei dei nostri corpi.

MA L’OGGI E’ GIA’ IERI, L’IO FISICO E’ MEMORIA. 

(Petta/Colavito, Ipazia, scienziata alessandrina)

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