ELIMINAZIONE DELL’ELEMENTO SEMITICO E ASIATICO

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Questa classificazione, elaborata dai funzionari dell’UWZ, venne applicata alla lettera

durante la prima grande operazione di espulsione, avviata il 27 novembre 1942:

In 21 giorni sono state espulse da 60 villaggi complessivamente 9771 persone.

Sono rimaste sul luogo, come lavoratori agricoli o operai specializzati, 2716 persone.

Le 7055 persone trasferite al campo di ZAMOSC sono state filtrate e accorpate ai seguenti

gruppi di valutazione:

– GRUPPO 2 (da rigermanizzare): 314 persone ossia il 4,4%;

– GRUPPO 3 (importanti solo per la loro capacità lavoro) 5147 persone ossia il 73%;

– GRUPPO 4 (PREVISTE PER IL CAMPO DI LAVORO DI AUSCHWITZ )1594 persone

ossia il 22,6%.

Del gruppo di valutazione 4, tolti i vecchi e i bambini, 910 persone sono previste per il

campo di lavoro di Auschwitz.

Le persone previste per il lavoro coatto nel vecchio Reich serviranno innanzitutto a

sostituire gli ebrei che si trovano ancora a Berlino.

Nell’ottobre 1942, 24.300 tedeschi etnici ‘rimpatriati’ erano pronti a insediarsi definitivamente

nella regione di Zamosc. Alcuni di loro, tedeschi del Volga, passano un’ultima domenica

in attesa al campo di transito per coloni di Zamosc.

Il giorno dopo, vedranno per la prima volta le loro nuove fattorie.

Il vento è glaciale, ma sulla piazza i bambini ballano intorno al palo dal quale un altoparlante

diffonde un’allegra musica di circostanza.

I vecchi, al caldo nelle baracche, canticchiano la melodia mentre gli uomini, sul punto di

ritornare’contadini tedeschi liberi’, discutono delle loro prospettive future…

Lunedì 4 gennaio. Spunta l’alba. I bambini dormono ancora. Avvolti nella penombra,

uomini e donne caricano i furgoni. Infine viene dato un segnale. Il convoglio si mette in moto,

lascia Zamosc, avanza sulla terra conquistata, si avvicina a un villaggio. ‘Tutt’intorno, nel

raggio di molti chilometri, regna ovunque ancora la quiete; le case, i granai, le stalle si

stagliano nel paesaggio come fossero morti. Non si vede neppure un uomo; non si

ode nessun rumore’.

Paesaggio-oggetto da modellare, terra defunta da rianimare; al lettore tedesco di indovinare

perché e da quando vi regnano questo silenzio, questa quiete e questa vacuità.

Paesaggio-trofeo da trasformare.

Una porta si apre all’improvviso.

Il capo del villaggio, col piano catastale in mano, si tiene pronto ad accogliere i suoi

abitanti; vestito con l’uniforme nera della SS, è un tedesco del REICH.

Quel contadino soldato è circondato da donne, sia reclute del servizio civile sia infermiere

del Soccorso popolare-nazionalsocialista  o ragazze del BDM. Donne che hanno preparato

tutto per i nuovi arrivati e acceso i camini.

Malgrado il ‘calore’ di questa accoglienza, regna, così ci vien detto, ‘una strana atmosfera’.

‘Dove sarà la mia fattoria?’

Un primo furgone occupato da un vedovo e dai suoi sette figli prosegue il cammino

attraverso la frazione in direzione dei campi. Si incrocia una prima casa.

L’accompagnatore grida ‘QUI !’.

IL COLONO arresta i suoi cavalli, scende, entra pensieroso nella ‘sua’ fattoria, poi va

alla stalla ed esamina il bestiame del suo predecessore e benefattore suo malgrado, verifica

se le macchine agricole funzionano. Quindi, ‘lento e pesante, avanza sulle zolle di terra

gelata verso i campi, si china gratta il suolo e annuisce col capo in segno di evidente

soddisfazione’.

Ma non c’è un minuto da perdere, bisogna ‘mettere in ordine in questa tenuta’.

Comincia una giornata di lavoro alla tedesca.

‘UN VILLAGGIO SI DESTA A UNA VITA NUOVA E MIGLIORE’.

(Conte/Essner, Culti di sangue antropologia del nazismo)

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I PICCOLI UOMINI DELLA TUNDRA

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orrore di altri mondi

l’uomo bianco nella terra bianca

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“Lindbergh” mi fece conoscere Aslak, un lappone di quelli che

hanno lasciato le montagne, un ragazzone che si adegua al

mondo, e per farsi fotografare dai turisti, con la tunica sgar-

giante – in divisa, se vogliamo – pretende un concreto ricono-

scimento, ma deve studiare e andare in città, se vuol far car-

riera come suo fratello Mutti, che è avvocato, o come Niila,

che lavora in una segheria, o come Journi, che è un bravo

mercante.

E poi si sa che molte cose sono cambiate, e anche i pastori a-

scoltano col transistor le previsioni del tempo, da che parte

si scatena la tempesta, al villaggio è arrivato il juke-box, per

coordinare il raduno del gregge alcuni adoperano il walkie-

talkie, e ci sono dei signori che possiedono più di 10.000 capi,

che si consentono l’elicottero per seguire dall’alto il lento mi-

grare della mandria o per sparare su un branco di lupi.

Aslak mi concesse la sua benevolenza, incoraggiata anche

da stufato di alce con salsa di mirtilli, trota affumicata e ce-

trioli, torta di lamponi; e da rispettosi silenzi riempiti da

qualche brindisi, e da infinite tazze di un lungo caffè, che è

la bevanda nazionale.

Io non gli chiesi mai, come mi avevano raccomandato, quan-

te renne possedesse, lui non volle sapere a quanto ammonta-

va il mio deposito in banca.

Tutti e due delicatissimi.

– Siamo il più antico popolo d’Europa, e il più misterioso.

Si sa poco di noi, neppure quanti sono rimasti (30, 35.000, for-

se), e non contiamo nulla. Una minoranza che non ha peso, e

non vuole neppure averlo.

Senza dramma.

La Lapponia è una realtà geografica, che non ha confini preci-

si. Finiscono addosso a noi quattro Stati: Svezia, Norvegia, Fin-

landia e Urss.

– Lappone, che cosa vuol dire? In svedese ‘correre’ e noi siamo

dei grandi camminatori; in finlandese ‘le terre remote dell’estre-

mo settentrione’ o anche ‘sconoscute’; per qualcun altro signifi-

ca ‘l’ultima frontiera’.

– Di certo, non si sa neppure da dove veniamo: qualcuno so-

stiene che avevamo i nonni mongoli, come gli indios, i cinesi,

gli eschimesi, gli ungheresi. La sola cosa che tutti sono d’accor-

do nel riconoscerci – oltre al fatto che siamo i più piccoli di sta-

tura e già i VICHINGHI per questo ci sfottevano -, è che i no-

stri antenati, 4000 anni fa, guardarono il piede piatto della ren-

na, che scivolava sulla neve, ebbero la buona idea di inventare

gli sci, e un cronista medioevale narra la meraviglia di quegli

uomini che su due pezzi di legno curvati riescono a raggiunger

le bestie selvagge.

– Siamo tipo che si sono sempre contentati di poco, pur di essere

liberi; già Tacito ci criticava, perché pretendevamo – vagabon-

dando, andando contro la natura, il rischio, la solitudine, l’igno-

to – di essere più felici di quelli che si fermavano a sudare nei

campi.

– Ma noi dobbiamo sempre inseguire qualcuno: o i salmoni che

risalgono la corrente per seminare le uova, o la renna randagia

che va a cercare il licheno o la foglia.

(Enzo Biagi, Scandinavia)





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L’UOMO BIANCO NELLA TERRA BIANCA

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orrore di altri mondi

i padroni di ieri

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Papik avrebbe ben presto avuto bisogno di quanti amuleti

poteva portare, visto che un nuovo pericolo stava sorgendo

ad accrescere gli ostacoli naturali dell’Artide.

Quando Ivalù aveva quasi quattro anni, un gruppo di e-

sploratori si spinse tanto oltre il circolo polare che Ernenek

e Asiak ne avvistarono l’accampamento nell’aurora boreale

e non seppero resistere alla tentazione di visitarlo.

La spedizione era composta da otto uomini bianchi e di

Eschimesi più numerosi che un uomo contato fino in fondo.

Ancor più impressionante era il numero delle slitte e dei ca-

ni:

19 slitte e una vera fiumana di cani.

Gli eschimesi provenivano da lontane tribù meridionali le

cui usanze erano assai diverse da quelle degli uomini polari:

spesso bollivano la carne, mangiavano i cibi dell’uomo bian-

co e seguivano molte sue usanze.

Gli esploratori credevano che quegli indigeni fossero capaci

di guidarli con sicurezza e perizia attraverso le zone gelate,

ma Ernenek non la pensava così.

Secondo lui, gli Eschimesi meridionali non sapevano molto

più dell’uomo bianco, il che era ben poco; e talvolta ne sape-

vano ancora meno.

Gli stranieri solevano portarsi dietro fin dalla partenza tutto

il cibo e il combustibile necessari in un viaggio. Per strada eri-

gevano tende che il vento portava via o grandi case di neve

che cercavano di riscaldare con stufe a carbone, ma invano,

a causa delle dimensioni degli ambienti.

Inoltre avevano bisogno di numerose slitte per trasportare il

carbone, e di altre slitte per le stufe. Poi occorrevano slitte sup-

plementari per trasportare il cibo per i cani che tiravano il car-

bone e le stufe.

Quindi erano necessari altri Eschimesi per badare a quei cani,

e a quelle slitte, e questi Eschimesi a loro volta necessitavano

di cibo e combustibile, finché tutta la faccenda diveniva un

circolo vizioso senza uscita.

Quando Ernenek si mise a rovistare nelle casse degli esplorato-

ri, ricevette una bastonata sulle dita; e quando, più tardi gli of-

frirono un po’ d’acqua di fuoco, si convinse che gli erano deci-

samente ostili e decise d’andarsene.

Sarebbe stato meglio se lo avesse fatto.

(H. Ruesch, Paese dalle ombre lunghe)





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NESSUNO TI AIUTERA’ IN QUESTO MONDO

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orrore di altri mondi

coda di lupo

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Sono venuto fin quaggiù a cercare gli Hopi, perché sono

rimasti fedeli alla tradizione, e non si sono fatti sommer-

gere dal turismo e dal progresso.

Anche se i bisonti sono finiti nei parchi, coi bufali e gli

alci e i cani della prateria, rarità per zoologi e per curiosi,

anche se sui sentieri sono fioriti motel e i distributori di

benzina, anche se, invece delle carovane degli agricoltori,

arrivano adesso le roulottes dei geologi che cercano uranio

o piantano pozzi, gli Hopi sono rimasti chiusi nelle loro tra-

dizioni e nella leggenda.

Odiano le macchine fotografiche e i visitatori, obbediscono

ai capi, le donne cuociono il pane nei forni, tessono, dipingo-

no la terracotta, come una volta; gli Hopi non escono che ra-

ramente dalle 4000 miglia quadrate che furono assegnate,

agli sfortunati predecessori, da ‘quelli di Washington’, e so-

no lontani nel tempo, nella psicologia, nella fede.

Seppelliscono ancora i loro morti tra le pietre, e nei vasi, sulle

tombe, mettono acqua e frutti, si raccolgono nel kiva, dove in

origine si conservava il frumento e si cremavano i defunti, e il

segreto ricopre le loro preghiere, e nasconde le danze che cele-

brano in novembre, nei giorni più freddi e più brevi, l’inizio

dell’anno rituale.

Rispettano la memoria degli avi, e alla Trading Post di Keams

Canyon, dove si mangiano polpette e uova, e dove si compera-

no sete colorate, scarpe, brillantine per tener ordinati i lucidi

capelli, accanto al manifesto che annuncia il prossimo rodeo,

c’è il ritratto del grande e coraggioso Geronimo.

Di lui ricordano le esortazioni che rivolse al figlio:

” Ragazzo mio, tu sai che nessuno ti aiuterà in questo mondo.

Devi fare qualcosa.

Corri fino a quella montagna e torna indietro.

Questo ti renderà forte.

Ragazzo mio, tu sai che nessuno è tuo amico, neppure tua so-

rella, tuo padre, tua madre.

Le tue gambe ti sono amiche; il tuo cavallo ti è amico; il tuo

lupo ti è amico; la tua vista ti è amica; le tue mani ti sono amiche;

di questo devi fare qualcosa”.

(Enzo Biagi, America)





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SUL CRINALE DEI PINI

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orrore di altri mondi &

la danza degli spettri

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Una sola volta, alcuni ribelli, gli abitanti di              300px-DeadBigfoot.jpg

Wounded Knee, un piccolo villaggio del Sud

Dakota (chiesa, qualche baracca di legno, bottega

dove c’è di tutto) hanno dissotterrato l’ascia per

ingaggiare battaglia contro i Federali.

Fu qui, sul crinale dei Pini, che nel 1890 il

Settimo Cavalleria si scatenò per l’ultimo massacro.

Quella del Red Power è, di solito, una rivoluzione che

non intende organizzare la violenza, ma suscitare

rimorsi.

Frank James, nome americano, ma sangue indiano,                           1381.jpg

superstite della tribù dei Wampanoag, ha lanciato un

proclama che non è un inno di guerra, ma una requisi-

toria:

– Io vi parlo da uomo e da wampanoag, orgoglioso

della sua ascendenza. Questo è per voi momento di

celebrazioni. Per me è tempo di tristi ricordi. I miei

antenati  accolsero con amicizia i vostri, e commisero il

loro più grande errore. Nell’istante in cui aprivano le

braccia all’uomo bianco, non sapevano che lì a 50 anni

la tribù Wampanoag sarebbe stata eliminata dagli                                 AtWoundedKnee.jpg

ospiti. Che cosa è accaduto? La storia ci parla di atrocità.

Il mio popolo, come tutte le nazioni indiane, è stato

perseguitato, avvelenato, affamato, massacrato,

DISTRUTTO. I libri dicono che ci fu lo scontro fra due

culture. La verità è che voi avete dimenticato troppo

spesso che l’indiano è un uomo come il bianco.

L’indiano sente il dolore, conosce la paura,sogna                                      woundedknee.jpg

soffre di solitudine, ha bisogno di ridere e di piangere.

E’ stato invece trattato, per secoli, da selvaggio, da

animale. Il nostro popolo si è chiuso in se stesso, è

diventato il popolo del silenzio. Ma ora abbiamo deciso

di parlare, di guardare in faccia la verità. Noi siamo

indiani: gli anni han cancellato il nostro passato, la nostra

lingua è quasi estinta, noi siamo dispersi e confusi, abbiamo                   wk6.jpg

perduto le nstre terre, siamo stati sconfitti e conquistati.

Ma il nostro spirito rifiuta di morire. Ieri camminavamo

per i sentieri e le piste sabbiose. Ci avete rincorso peggio

se fossimo stati lupi. Ci avete calunniato peggio del ladri.

Ci avete perseguitato peggio di qualsiasi animale. Ci avete

teso trappole e imboscate, affamato, e ridotto brandelli.

Avete giurato il falso e vi siete divertiti alle nostre spalle.                       wounded-knee.jpg

Ci avete rubato tutto quello che era nostro. Avete confuso

la verià con la calunnia. Vi siete alleati con i peggiori aguzzini.

Oggi dobbiamo calcare l’asfalto delle autostrade, anche lì

avete tentato un’ultima INFAMIA!

(Enzo Biagi, America)






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