L’UOMO E LA NATURA (18)

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Dante l’eretico e altri gironi infernali in:

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Le sponde di ghiaia erose con ciuffi di erica e cuscini di borraccina

punteggiati e imbiancati dal muschio; radici slavate, radici nude

sul terreno; ghiaioni screziati dai licheni.

E il muschio quasi ardeva, intorno, bianco grigiastro con pallide

sfumature violacee.

Più in alto il terreno era paludoso, disseminato di isole erbose.

C’erano ruscelli e acquitrini con muschio, e fili d’erba fini come

capelli. Erioforo. E ancora più su un ruscello che scorreva sulla

torba, su un pendio coperto di erica.

Il ruscello di tanto in tanto scompariva, per tornare in superficie

sprizzando in un basso gorgoglio e un chiacchiericcio discontinuo.

Sulla sponda un esile fungo basso, bianco con una macchia rossa

in mezzo alla cappella, come schizzato dal sangue di una leggenda

popolare.

E l’erioforo si stagliava nella chiara distesa verdognola, un tappeto

umido sotto i piedi.

Le gocce nel muschio tremolavano, scintillavano come delicati gioielli.

Strani occhi acquosi, quelle gocce nel muschio sulle rive del ruscello,

come acqua spruzzata di ghiaccio, o con vene e cavità sparse, o pozze

d’acqua gelate o cristalli. Eretti in attesa di un dito che vi si infilasse

sprofondando nel pallido muschio giallognolo.

Tremanti nella brezza.

Poi si aprivano brecce o fessure nel muschio, coronato da bacche scure;

e ovunque ciuffi di descampsia.

Coppe giallo-brune di pozzanghere seccate; vegetazione messa a nudo

nei letti dei ruscelli.

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Dirupi sterili si allungavano dalla spalla del monte sotto la cima, come

a voler raggiungere i fondi rossastri delle pozze seccate. Più salivano,

più il pendio si faceva ripido. E altre montagne comparivano alla vista.

La nebbia cominciò ad avvolgere le loro creste e a fluire giù per i

fianchi rocciosi e scoscesi. Ma si dissolse per un istante in vapore,

ingigantendo le forre in burroni, le pietre in massi. O troll?

In attesa di qualcosa.

Che sarebbe stato, che forse già era.

Ululati del vento, gemiti delle cime, rombi dietro le montagne.

Adesso c’erano cumuli di neve nella conca che dovevano attraversare,

e quando raggiunsero la falda del monte apparve una valle stretta con

enormi roccioni, e un’inaspettata parete che si staccava dalla valle

con i suoi licheni verdi e bianchi come verderame, e lastroni piatti

e venati di sfumature marmoree.

L’aria era tersa e pura nella brezza fresca di quella valle, nonostante

la foschia e la nebbia avvolgessero ancora la montagna. Giunti dietro

il crinale che avevano a lungo costeggiato entro il letto del fiume

prosciugato, le montagne a cerchio formavano una conca, striature

di neve lungo i fianchi, mentre la nube di foschia planava portata dal

vento o aleggiava intorno ai picchi, oscillando avanti e indietro alle

cime aguzze. Scivolando lungo il pendio, rivelava o copriva le

rocce sul sentiero non battuto riversandosi giù per i ghiaioni scoscesi

con le loro colate di detriti.

Il muschio sulle pietre nella conca era quasi nero tra i massi enormi.

La corona di alti dirupi stimolava visioni minacciose.

Visione su visione.

La foschia lontana premeva su quella più vicina addensandola, scivolando

avanti e indietro, librandosi sui lati, come se la montagna repirasse e i

versanti ondeggiassero.

Un solo cespuglio di bacche tra le pietre di muschio e i licheni variopinti;

e screziature verdi nel muschio nero, come polvere che si celasse nelle

falde del muschio, con chiazze di marrone, come se spuntasse bruciato

dal ghiacciaio e dalla neve.

Non parlavano, separandosi di tanto in tanto come se ognuno fosse in

un proprio mondo, con i propri pensieri e le proprie percezioni, ma

sempre lo stesso paese, lo stesso cielo, lo stesso tempo; ognuno

impregnato di ciò che fermentava nella propria mente; e ognuno, per

distrarsi, scegliendo dal paesaggio scenari appropriati alle sue

rappresentazioni interiori: schizzi di immagini da rielaborare, più

che sufficienti al momento, ma che, a suo tempo, potevano tessersi

in un informe arazzo, sulle pareti di stanze per ora lontane, dove l’

anima un giorno avrebbe forse potuto cercare quanto possedeva.

Avevano da tempo passato i terreni pietrosi tra le montagne e

avevano cominciato a salire il monte che aveva ora una sua realtà.

A meno che non fosse un sogno.

Un sogno?

(Thor Vilhjàlmsson, Il muschio grigio arde)

 

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L’UOMO E LA NATURA (17)

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Dante l’eretico e altri gironi infernali in:

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…Poi si rivolse per la strada lorda,

e non fé motto a noi, ma fé sembiante

d’uomo cui altra cura stringa e morda

 

che quella di colui che li è davante;

e noi movemmo i piedi inver’ la terra,

sicuri appresso le parole sante.

 

Dentro li ‘ntrammo senz’alcuna guerra;

e io, ch’avea di riguardar disio

la condizion che tal fortezza serra,

 

com’io dentro, l’occhio intorno invio:

e veggio ad ogne man grande campagna,

piena di duolo e di tormento rio.

 

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,

sì com’a Pola, presso Carnaro

ch’Italia chiude e suoi termini bagna,

 

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,

così facevan quivi d’ogne parte,

salvo che ‘l modo v’era più amaro;

 

ché tra gli avelli fiamme erano sparte,

per le quali eran sì del tutto accesi,

che ferro più non chiede verun’arte.

 

Tutti li lor coperchi eran sospesi,

e fuor n’uscivan si duri lamenti,

che ben parean di miseri e d’offesi.

 

E io: ‘Maestro, quai son quelle genti

che, seppelite dentro da quell’arche,

si fan sentir coi sospiri dolenti?’

 

Ed elli a me: ‘Qui son li eresiarche

con lor seguaci, d’ogni setta, e molto

più che non credi son le tombe carche.

 

Simile qui con simile è sepolto,

e i monimenti son più e men caldi’.

E poi ch’a la man destra si fu vòlto,

passammo tra i martìri e li alti spaldi.

(Dante Alighieri, Inferno Canto IX, 102/133)

 

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L’UOMO E LA NATURA (il muschio arde) (16)

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…altre pagine dello stesso autore:

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il-muschio-grigio-arde1.html

il-muschio-grigio-arde2.html

L’eretico Dante…e altre pagine di storia velata in..

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…E da lì riparte il ragazzo, divenuto poeta.

E vola sopra la sua terra sulle ali appena spuntate, tanto ampie da

farlo planare in ampi cerchi tra le vette insieme alle aquile, solo, nell’

immobilità trasparente.

Vorticando attorno ai coni delle montagne, aguzzando la vista sui

picchi e i promontori, arricchendosi dei segni d’esortazione levigati

dal vento della roccia eterna.

Per poi innalzarsi, visionario, sopra valli dove i fiumi visti dall’alto

scivolano lentamente sul paesaggio; e le fattorie appaiono allo

sguardo dell’aquila.

Zolle, dossi coperti d’erba su cui il vento passa accarezzando i

fili in cerca di qualcosa che possa recepire un messaggio. E in

quei covi sotto l’erba vive la tua gente. Come nelle tane o nei

nidi delle pulcinelle di mare.

E fatica notte e giorno a falciare i fili d’erba sulle zolle, per nutrire

quelle pecore testarde che saltellano sui monti e nelle distese

immemori fino al momento di riporre la falce e inseguirle per

radunalrle finché non scorrono come latte montano per i pendii,

in autunno, in una sinfonia di belati, latrati, mormorii di ruscelli

e grida acute, e tonfi di zoccoli sul muschio e scalpiccio di cavalli

sulla pietra, e rombo di galoppo nei campi; sbuffi e nitriti; forse il

gemito del vento; finché le canzoni conviviali si fondono con le voci

dei bambini e delle donne nel recinto ai piedi della montagna, e le

pecore cambiano voce quando la loro libertà svanisce nel mondo

degli uomini.

E l’uomo torna alla sua capanna.

La tua nazione, la tua gente.

Secoli dopo secoli.

La tua stirpe seppellita nella terra, che si stringe sotto le tempeste

di neve invernali, in cerca di un riparo dagli elementi nei suoi rifugi

sotterranei….

(Thor Vilhjalmsson, Il muschio grigio arde)

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L’UOMO E LA NATURA (inferno spento) (15)

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Altri inferi in:

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Da tempo cavalchiamo tra folate di vento artico, in un deserto di lava

frantumata e di rupi basaltiche.

La lava – talvolta disseminata in punte e spezzata in lastroni, talvolta

disposta in gironi quasi danteschi – assume un colore rugginoso,

affumicato: e fa pensare al gigantesco residuo di un enorme incendio

avvenuto e consumatosi nei millenni delle prime convulsioni geologiche.

Di tanto in tanto, come un crepaccio, un rivo si apre mostrando acque

gelide, saltellanti di scalino in scalino e scintillanti di pallide iridazioni.

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Spesso il rivo dilaga anche in magre lagune, che bisogna guadare

mentre gli stivaloni tuffati nell’acqua, assumono funzione di altimetri.

Siamo al 65° parallelo, cioè in una zona cinque gradi più in là del

Labrador e press’a poco all’altezza della Terra di Baffin.

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Là è l’Inferno spento, spiega il mio compagno islandese addidantomi

verso Nord un tormentato e pauroso orizzonte di nere montagne.

Il gioco della prospettiva in questo eccezionale spettacolo appare

variato e moltiplicato all’infinito.

Punte frastagli creste valli crateri strapiombi moltiplicano i piani dell’

atmosfera e quindi le sue colorazioni, dando al paesaggio una variegatura

e una screziatura cromatica forse uniche al mondo.

Si scorgono in questo panorama selenitico tutti i disegni e i volumi

geometrici. Sembra di avere l’occhio all’equatoriale di un osservatorio

astronomico e di contemplare le distese sforacchiate della luna.

Basalti e lave eruttati da millenni e millenni si sono congelati condensati

cristalizzati in pinnacoli in duomi in piramidi in coni in balconate e in

chiostri.

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Si vedono vette cornute; sembrano immagini di diavoli.

Altre sono turrite come tetri paesaggi di un Medioevo favoloso.

Altre si toccano in istrani barocchi o si lanciano verso il cielo con mezzi

archi di gotici irreali.

Tutte le architetture sembrano essersi date convegno qui, per esservi poi

rimescolate da una mano convulsa ma onnipotente. Talvolta queste forme,

come per lo scherzo di un gigantesco coagulo si sono frammiste fuse e

combinate insieme, dando luogo a forme nuove e audacissime, spesso

assurde, dalle quali gli architetti del futuro potranno trarre ispirazione.

Questo Inferno spento – domando al compagno che cavalca quasi al mio

fianco – sarà naturalmente disabitato.

– E’ disabitato quello che vedete all’orizzonte ma qui in questa regione,

che corre lungo il 65° parallelo, l’uomo atticchisce ancora. E ve ne dà la

prova il baer verso il quale siamo incamminati. Ma si tratta ancora di una

zona diciamo così costiea dove esistono frequenti acque calde. Un po’ eremita

e un po’ pioniere, l’uomo di questa zona vive lavora edifica ed offre il modello

di una vita familiare ormai sconosciuta nei paesi così detti civili, una vita

di cui la solitudine artica rende anche più stretti i legami.

– Esistono villaggi?

– La parola villaggio è sconosciuta in queste terre. Qui non vi sono che embrioni

di villaggi: cioè i baers. Si tratta di piccole fattorie in cui vivono una, e di

rado due famiglie. Il padrone del baer è una specie di piccolo capo.

L’uomo, qui, vive e si foggia nella solitudine, tra l’imperversare dei piovaschi

glaciali, il fioccar delle nevi e l’ululo delle raffiche…..

(C. Mortari, Islanda inferno spento)

 

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TEMPESTE DI FUOCO

In riferimento alla prima guera mondiale:

l-avventura-della-bicicletta-17.html

diario-di-guerra-di-un-fante.html

7-8-9-luglio.html

Tempeste di neve fra storie di eretici ed inquisitori in:

tempeste-di-neve-eretici-di-montagna.html

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Trecento metri sotto la prima linea noi andiamo a riposo, e se non fosse

per la corvée ci si starebbe da papi.

Invece i giornali.

Dì, faccione, non parlarmi dei giornali, che non ne voglio sentire.

I giornali sono uno spaccio di articoli di fantasia per uso dei minchioni

e delle signorine che hanno il prurito.

Dopo l’attacco a Cima Quattro, abbiamo goduto a farcelo descrivere dal

giornale. Quel giorno c’erano colonne di feriti che scendevano contentoni

di essersela cavata senza rimetterci tutta la pelle.

E il giornalista scriveva che i feriti erano felici di avere dato il loro sangue

per la patria.

E questa?

Sapete che a Sdraussina scendevano tutti quei congelati che, siccome non

potevano più mettere le casse di cottura, avevano infagottato i piedi a terra.

Bene, i giornali stampavano che quei poveri cristi s’erano messi i sacchetti

per non far rumore quando andavano all’attacco, come i sardi, alla trincea

delle frasche.

Finitela con questi giornali!

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Ora comincia il bollettino delle novità. Su quegli spettegolamenti di fanti,

l’artiglieria incomincia a levare dal deserto di sassi il suo clamore oceanico.

Dopo quindici giorni di una violenza che si dibatté fra trincea e trincea con

la collera di una bestia aggiogata, siamo retrocessi di rincalzo alla dolina

impressa dietro la cresta come un enorme inbuto d’obice.

L’ufficiale che mi diede il cambio accennò ad un attacco che, su queste posizioni,

il suo reggimento, già dieci volte logorato, dovrà affettuare tra giorni: un

tranquillo presentimento della morte gli faceva le parole pacate e gli occhi

aridi.

Ogni volta si dice: chi sa?

Ma viene un giorno in cui non si può dire: così sia!

Lo lasciai che contemplava i suoi morti, rovesciati dalla stanchezza allo scoperto,

ancor carichi dello zaino, e la desolazione del Carso appeso al cielo per i suoi

pigri tentacoli di fumo.

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La dolina è gremita di tane come un alveare: gli estremi ricoveri traforano quasi

l’orlo oltre il quale s’incava il deserto dell’altopiano. E in quell’agglomerazione

di nidi terrosi brulica e si rintana la moltitudine dei soldati, come una legione

di insetti. Il fondo della dolina, untuoso di moticchio rossastro, è crivellato di

croci ubriache: è il cimitero dei soldati raccolti su questo campo di battaglia

aggraffato al nemico.

Affiorano, alla superficie limacciosa, delle scarpe chiodate e delle mani scheletriche,

violette adunche, in cerca di una presa. Talvolta il bombardamento, che non

può aggiustarsi sulla prima linea, troppo prossima alla trincea austriaca,

cercando noi rivanga in questo piccolo campo di morti anonimi, strappandone,

come ad un grembo, delle membra umane. Ma una granata, tentando di

irrompere nella dolina, ha infilato uno dei ricoveri appollaiati lassù, lungo la

cresta, ed ha schizzato fuori da quell’antro un po’ di poltiglia umana.

Scesi a riposo nella pianura friulana, abbiamo conosciuto il nuovo comandante

di compagnia.

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E’ un capitano effettivo di nuova nomina: proviene da un’altro reggimento.

Ci siamo avvicinati a lui, presentandoci, come d’uso.

Egli non ci stese la mano, né rilevò l’atto.

Disse al tenente Ventura:

Lei che è il più anziano in grado, mi presenti agli ufficiali della compagnia.

Caspita, un po’ di disciplina ci vuole.

E’ il pignolo di caserma, impettito come uno struzzo; ha un mento duro e

sporgente che pare un apparecchio male applicato, armato di denti aguzzi che

digrignano le parole. Qualcosa di meccanico nel muoversi, nel parlare, e gli

occhi mongolici che s’arrovellano come due sfere d’avorio fanno pensare a

certi amuleti giapponesi, gli occhi di un imbecille…

(Carlo Salsa, Trincee confidenze di un fante)

 

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NUVOLE (6)

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Eretici, inquisitori…e…imbecilli in:

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L’avvento del telegrafo aveva sì permesso la costituzione di servizi meteorologici

nella speranza di svelare in tempo la presenza dei cicloni e di predirne il percorso,

ma le previsioni erano, nei migliori dei casi, imprecise e molto spesso del tutto

errate. Le forze in gioco in una tempesta erano davvero così enormi e sconcertanti

che molti valenti scienziati erano pronti ad arrendersi alla volontà divina e lasciar

andar le cose per il loro verso.

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Ma non Vilhelm Bjerknes, dotato com’era di una fede incrollabile nella capacità

della scienza di spiegare tutti i misteri del mondo fisico con precisione matematica.

Si trattava solo di trovare la formula adatta.

Bjerknes aveva ereditato questa fede nella scienza dal padre, professore di matematica

all’Università di Christiana (l’odierna Oslo) e pioniere nello studio della dinamica

dei fluidi. L’amore del giovane per la scienza era stato alimentato durante gli

studi universitari in Norvegia e poi in Francia e in Germania da Jules-Henri

Poincaré, il famoso matematico, e da Heinrich Hertz, il mago dell’elettro-

magnetismo. Vedendo questi scienziati applicare con successo le leggi della

fisica ad un’ampia gamma di problemi, Bjerknes si persuase che nell’universo

non ci fosse nulla di così complesso da resistere ad una spiegazione scientifica.

Bjerknes scelse un approccio metodico: il suo primo obiettivo consisteva nel

definire lo stato dell’atmosfera in un dato momento, per poi calcolare in base

alle leggi della termodinamica e dell’idrodinamica ‘lo stato futuro dell’atmosfera’.

Non era interessato tanto alle previsioni meteorologiche in se stesse – sapeva

che il tempo cambiava molto prima di terminare tutti i calcoli necessari – quanto

alla completa comprensione dei principi fisici implicati.

Bjerknes non riuscì mai a raggiungere il suo obiettivo, che sarebbe anzi rimasto

irrangiugibile per altri 75 anni. Fece però compiere dei passi da gigante all’

applicazione della meteorologia su scala mondiale.

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Dopo anni di studio, con un improvviso slancio creativo, Bjerknes e un pugno

di assistenti, penetrarono, come nessun altro prima, nei misteri delle tormente,

delle bufere e dei temporali che devastavano le popolose aree industriali delle

medie latitudini. In soli cinque anni la scuola di teoria meteorologica di

Bergen, la città norvegese sede del suo quartier generale, definì con chiarezza

senza precedenti la struttura, la formazione e il comportamento delle

masse d’aria, oltre a ciò che Bjerknes e i suoi collaboratori chiamavano cicloni

frontali.

Il loro lavoro doveva avere profonde conseguenze su tutti gli aspetti della

vita influenzati dal tempo, costituendo l’inizio della moderna meteorologia.

Il progetto di Bjerknes, facilmente abbozzato, era però di ardua realizzazione.

Definire lo stato dell’atmosfera in un dato momento richiede misure di

temperatura, pressione, umidità, densità e velocità dei venti eseguite da

vari punti di osservazione.

Ci volevano strumenti, osservatori, una centrale amministrativa e personale

di laboratorio, e tutto ciò richiedeva molto denaro. Nel 1905 Bjerknes si

recò negli Stati Uniti e riuscì ad ottenere dalla Carnegie Institution un

finanziamento annuale, destinato a continuare per circa 40 anni. A

Stoccolma gli mancavano però personale e le attrezzature necessari e non

li trovò neppure in Norvegia, quando nel 1907 ritornò in patria. In realtà

poche nazioni europee disponevano di fondi per sovvenzionare un progetto

di ricerca dalle dimensioni previste da Bjerknes, e un numero ancora più

esiguo ne aveva l’interesse.

La situazione cambiò all’improvviso nel 1912, quando una nazione dotata

di risorse finanziarie scoprì un valido motivo di interesse nella meteorologia:

in Germania l’espansione dell’impero e le crescenti prospettive di guerra

attirarono l’attenzione generale sulla meteorologia e le sue ripercussioni

su strategia e comunicazioni. I grandi progressi continuarono fino al 1914,

con lo scoppio della prima guerra mondiale, le vaste ricerche teoriche

sovvenzionate e patrocinate dall’Impero tedesco, mutarono in precise

esigenze di guerra. I piloti di aereii e dirigibili avevano bisogno di sapere

quali condizioni atmosferiche avrebbero incontrato durante le loro

missioni; poiché i tiri di sbarramento a lunga gittata dell’artiglieria subivano

l’influenza del vento, accurate previsioni erano essenziali anche nel

programmare offensive terrestri.

 

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CORSA ALLA VETTA (l’industria scala la cima) (3)

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Prosegue in:

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Di canti e feste con stelle alpine non ce ne facciamo niente.

Ci interessano le prestazioni e l’avventura.

Dicono gli arrampicatori sportivi. Da anni alcuni di loro vogliono la competizione

agonistica diretta. Sugli 8000 si contano le ore di salita. La corsa alla vetta è

cominciata da tempo. Finora non sono stati gli dei delle montagne a tenerci

lontani da Olimpia e dai campionati mondiali, bensì i funzionari sportivi.

Non erano pronti a riconoscere l’alpinismo come disciplina olimpica. Ciò

nonostante si misura, si confronta, si valuta. Anche gli alpinisti sono esseri

umani.

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L’ambiente sa chi è in.

Out è chi cade, e nel farlo muore.

Viene dimenticato più in fretta di Willo Welzenbach, il re degli alpinisti degli

anni trenta, che deve questa fama soprattutto al fatto di non essere sceso in

tempo dal Nanga Parbat.

Non si richiede più una morta eroica.

Quello che interessa è chi sono gli scalatori ‘più importanti’ nell’ambito di

una concorrenza internazionale. Quello che conta è dove sono oggi i migliori o,

più precisamente, dove vanno ad arrampicare.

Questa è la situazione.

Nell’arco di quasi 100 anni l’alpinismo si è suddiviso nettamente in varie

discipline singole. Lo sci moderno, derivato in origine dall’alpinismo, ha

sperimentato questa evoluzione cinquant’anni fa: oggi a nessuno verrebbe

l’idea di paragonare un discesista a un fondista.

Sì, esistono specialisti di slalom e di slalom gigante. Tra breve ci sarà qualcosa

di simile all’alpinismo. Il puro arrampicatore sportivo e l’alpinista di una

spedizione sono più lontani tra loro che non un velocista e un maratoneta.

E la specializzazione continua.

Se quest’evoluzione sia buona o cattiva, è irrilevante. E’ una realtà.

L’alpinismo quindi si suddivide sempre più nettamente in diverse discipline

sportive. E queste ultime si disperdono. Un numero sempre crescente di

specialisti sempre più preparati si allena per un campo sempre più limitato

dell’alpinismo. Nel loro settore quelli che di volta in volta emergono raggiungono

un’efficienza mai vista.

Oggi gli arrampicatori sportivi rappresentano una setta nella setta degli alpinisti.

Inoltre attualmente sono i campioni assoluti: lo dimostrano la loro popolarità

sempre crescente e una schiera di seguaci sempre più numerosi.

Attualmente in Inghilterra ci sono 5000 arrampicatori sportivi.

In Francia, in Australia, in Spagna e in Sudafrica il loro numero raddoppia di

anno in anno. Tutto ciò accresce la concorrenza e stimola la fantasia.

La predilizione della giovane generazione di arrampicatori per salite brevi e

oggettivamente sicure su montagne medie, l’atteggiamento sportivo e la

volontà che ne deriva di superare difficoltà sempre maggiori, sono decisamente

in contrasto con il senso della vita, di colui he si definisce ‘idealista’ e che

si è votato alle montagne ‘fino alla morte’.

Il grande dispendio di allenamento e l’accresciuta disponibilità alla caduta

sono spesso solo falsamente interpretati. Nell’ambiente degli arrampicatori

sportivi non si fanno solo esercitazioni su palestra di roccia: contano le

esigenze che ognuno ha nei confronti di se stesso, e per più di uno è anche

un problema di soldi.

Oggi anche la maggior parte degli alpinisti d’alta quota è composta da professionisti;

chi vuol far parte dei migliori in assoluto, deve realizzare ogni anno parecchi successi,

e le spedizioni costano tempo e denaro.

Molto denaro e molto tempo.

Per giunta in Himalaya si tende a salire le montagne più alte, a scalare gli 8000

in serie. Inoltre ci sono percorsi nuovi, estremamente difficili, sui 6000 e sui 7000.

Mai come oggi l’industria ha incrementato il grande alpinismo: le regioni attorno

all’Himalaya e al Karakorum hanno spalancato le porte, e gareggiano persino a chi

prepara più spedizioni.

(R. Messner, Corsa alla vetta)

 

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