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Da Romolo a Remo al Mowgli del ‘Libro della giungla’ di Kipling
non si contano le storie di cuccioli di uomo salvati da lupe, nonché
da scrofe, pecore, pantere, orse e ultimamente, nel Sahara, da gaz-
zelle.
Non c’è un solo caso su cui sia stata fatta luce al di là di ogni dubbio.
E’ possibile che Pascal, il nome dato al nuovo venuto dalle suore
della missione, si riveli finalmente l’eccezione che conferma la regola.
Pascal fece subito amicizia con il cane dell’orfanatrofio, anche se un
giorno gli prese in bocca un orecchio e vi piantò i denti.
Durante la prima settimana si stracciava il vestito di dosso e gettava
via il cibo, e quando riuscì a mettere le mani su un paio di bicchieri
li sbatté l’uno contro l’altro come se fossero cembali.
Nella seconda settimana cominciò ad ambientarsi.
Imparò a salutare usando la formula hindi ‘Namaste!’.
Gli piaceva girare il giardino stando seduto ben dritto nel retro di
un risciò a pedali. Le suore dovevano sorvegliarlo quando era con
qualche altro bambino perché talvolta, all’improvviso, gli ficcava le
dita negli occhi.
Nel cortile sottostante crescevano alcune papaie lunghe ed esili. Un
canile ospitava un feroce pastore tedesco che al mio passaggio diede
uno strattone alla catena, abbaiò e mostrò i denti. Poi una collega di
padre Joseph, suor Clarice, offrì un tè in mio onore, durante il quale
lei e altre due religiose raccontarono la seguente versione dei fatti
della storia di Pascal.
All’inizio della settimana di Pasqua una donna mussulmana era ar-
rivata alla scuola con la notizia che un bambino-animale si aggirava
nella parte occidentale della città, cercando avanzi di cibo tra i rifiu-
ti.
Le suore lo trovarono il Venerdì Santo, sporco e abbandonato,
nascosto dentro una nicchia nel muro di una casa di mattoni d’argilla.
I proprietari della casa dissero che una lavandaia, qualche giorno pri-
ma, era venuta a far valere i suoi diritti sul bambino.
‘Ma non ha voluto riprenderselo’ s’intromise padre Joseph ‘quando
ha visto che veniva dalla giungla, e così via. Ecco come stanno le
cose: quando un bambino è stato toccato da un animale, lo abbando-
nano, e così via’.
Padre Joseph disse che nel corso del suo ministero aveva sentito
parlare spesso di ‘bambini-lupo’, ma non ne aveva mai visto uno con
i suoi occhi. Sapeva di una madre che aveva perso il suo bambino
al calar della sera e poi, quando era tornata sul posto, aveva trovato
una lupa che lo accudiva.
(……) Suor Clarice fece da interprete, e col suo aiuto riuscii a ricostruire
la storia nelle grandi linee.
Tutto era accaduto un mattino di circa cinque anni prima.
Era la stagione secca, ma il ‘thakur’ non ricordava esattamente il mese.
Era andato in bicicletta a trovare un cugino che abitava in un villaggio
dall’altra parte della foresta di Musafirkhana, più o meno a trenta chi-
lometri da Sultanpur. Mentre tornava verso la strada maestra
percorrendo un sentiero che attraversava macchie di bambù e di rovi,
udì una specie di guaito salire da dietro un cespuglio.
Si avvicinò furtivamente e vide il ragazzo che giocava con quattro
o cinque lupacchiotti. Non erano cani o sciacalli, tenne a ribadire:
erano lupi.
Il ragazzo aveva la pelle scurissima, le unghie così lunghe da sembra-
re artigli, una massa di capelli arruffati, le mani, i gomiti e i ginocchi
coperti di calli.
Aveva denti irregolari: alcuni erano sottili e affilati come piccole lame.
Correva lesto a quattro zampe, ma non poté tenere il passo dei
cuccioli quando questi schizzarono via in cerca di un riparo.
Della lupa non c’era traccia.
Il ‘thakur’ agguantò il bambino e si buscò un morso alla mano, ma
riuscì ugualmente a legarlo con il suo asciugamano, lo assicurò al
portapacchi della bicicletta e ripartì verso casa.
(Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?)