NOI ASCOLTAVAMO DJANGO

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noi ascoltavamo django (non li abbiamo uditi)








DJANGO REINHARDT: ‘genio istintivo’, ‘chitarra fatta uomo’,

‘poteri soprannaturali venuti dal passato’, ‘anima primitiva

marcata dal sigillo divino’, tali sono le formule che tornano

più frequentemente a suo riguardo!

Come se si negasse al grand manouche (come lo si nega ancor

oggi ai suoi fratelli di razza) la facoltà di darsi uno scopo e di

costringersi a uno sforzo intenso per raggiungerlo. 

Inadatto a ogni lavoro individuale e a ogni progetto collettivo,

l’immagine dello zingaro indolente e irresponsabile resta viva

nella nostra società (i nazisti pensarono e peggio eseguirono in

uno dei loro deliri di sopprimerli in massa, nota dell’autore del

blog).

Non c’è niente di più falso.

L’abbiamo visto con Django Reinhardt che rieduca con accani-

mento la sua mano atrofizzata, lo vedremo più tardi quando

imparerà a scrivere o si accosterà alla pittura (tutto il contrario

della delirante genetica tedesca).

In tutt’altro ordine di idee, lo constatiamo oggi con certe inizia-

tive tzigane che tendono a provare, nello stupore di più compe-

tenti che, pur senza assistenza gadjo, questo popolo può, quan-

do ne sente il desiderio, prendere in mano e valorizzare il pro-

prio patrimonio culturale.

Django era nato musicista e per molti questa spiegazione basta:

dopotutto gli tzigani non hanno forse la musica ‘nel sangue’, co-

me i neri hanno il ritmo?

(Billard/Antonietto, Django Reinhardt il gigante del jazz tzigano)






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UNA GIACCA SUPERBA

 

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Ricordo: era una bella giornata di giugno e io passeggiavo nel

giardino pubblico della mia città natale.

Il luogo era deserto e io contento perché mi sentivo giovane e

magro, perché il cielo era azzurro, perché avevo superato feli-

cemente certi fastidiosi esami. Ma, più che altro, ero felice

perché inauguravo, proprio quella mattina, una superba giac-

ca color nocciola, di ottimo taglio, di eccellente stoffa e di sin-

golare leggerezza.

 

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Una sola panchina era occupata: ben disposta su di essa,

una giovane donna stava leggendo. Mi sedetti chiedendo

scusa e mi accorsi allora, con lieto stupore, che la giovane

donna era la stessa giovane donna che io, da tanto tempo,

salutavo almeno venti volte al giorno e che, da tantissimo

tempo, avevo stabilito di informare di certo mio progetto

sentimentale.

Cominciammo a parlare cordialmente: ci conoscevamo e

non c’era quindi niente di male. La giovane donna si mostrò

molto cordiale e ben disposta a convenire con me che la gior-

nata era veramente bella, che alla sera non si sa mai cosa fare,

che l’anno prima la stagione era stata molto peggiore. 

A un tratto, però, la giovane donna tacque e cominciò a consi-

derare severamente la mia meravigliosa giacca. Mi fece cenno

di alzarmi e di voltarmi, onde accertarsi se la parte posteriore

del’indumento corrispondesse alle promesse della parte ante-

riore.

Alla fine la giovane donna scosse il capo:

No, no, esclamò convinta, questa giacca è veramente eccezionale e

voi mi farete il favore di non mettervela più, per ora. Sarebbe un pecca-

to sciuparla senza nessun costrutto. Serbatela: andrà benissimo per

quando noi saremo fidanzati e voi mi porterete a spasso sul corso.

Io balbettai qualcosa mentre un certo putiferio accadeva nella

parte della mia cassa toracica; poi salutai correttamente la gio-

vane donna e tornai a casa saltellando.

Dopo matura riflessione, favorita dalla notte fresca e profuma-

ta, io concludevo che, se avessi osato, forse i miei sogni si sa-

rebbero avverati.

Due giorni dopo, incontrata la giovane donna in luogo poco

frequentato, le balbettai qualcosa.

Non ricordo cosa dissi, allora.

Ricordo solo che mi fu risposto: ‘Anch’io’.

Il primo convegno fu nel pomeriggio del giorno seguente, nello

stesso giardino, e io indossai trionfalmente la mia superba giac-

ca color nocciola. Appena mi vide, la giovane donna disappro-

vò severamente il fatto:

No, esclamò, Sarebbe un peccato sciupare questa magnifica giacca a-

desso. Mettila nell’armadio: andrà benissimo per quando saremo sposati

e, d’estate, approfittando dei treni popolari, mi porterai a vedere Venezia.

Io tralascio tutti gli altri mille fatti analoghi: voglio soltanto se-

guire la sorte di questa mia splendida giacca color nocciola.

Passarono parecchi anni da quel giorno e finalmente la giovane

donna, con la scusa di tutelare il mio avvenire, mi indusse a con-

fessare a un dignitoso signore in veste talare che io ero felice di

condurla in matrimonio. 


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Entrammo nella nostra casetta un pomeriggio d’estate:

io aprii il mio vecchio baule, armeggiai attorno a un tessil-

sacco accuratamente chiuso e, di lì a poco, potevo comin-

ciare ad infilare il braccio  destro nella manica della mia

antica, famosa e sempre stupenda giacca color nocciola.

La dolce signora che fu già la mia dolcissima signorina, la

quale aveva seguito con interesse la mia azione di recupe-

ro, a questo punto ebbe uno scatto:

No, no!!, esclamò severamente, sarebbe un peccato sciupare una

giacca meravigliosa come questa. E poi ti è oramai maledettamente

stretta. Rimettila pure nell’apposito alloggiamento e aggiungi nafta-

lina. Andrà benissimo per il nostro bambino, il nostro futuro bam-

bino. Ci caverò fuori un paltoncino delizioso.

Il fatto è che oggi come oggi, dopo tanti anni, la mia super-

ba giacca è ancora nel tessilsacco.

Adesso che c’è un Albertino avente diritto a un paltoncino co-

lor nocciola, la esimia signora di cui sopra ha scoperto che sa-

rebbe un peccato sciupare una meravigliosa giacca per un

marmocchietto alto venti centimetri. Quella giacca andrà be-

nissimo per quando Albertino andrà alla Cresima.

Io ho citato il semplice fatto della giacca. Ma tutto è come la

giacca, nel mio quartopiano.

Ho speso un patrimonio in tendaggi e tappeti: non c’è uno

straccio alle finestre o per terra in casa mia.


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Quelle tende e quei tappeti, ha detto la simpatica creatura

che il Cielo sparse copiosamente sul mio cammino – an-

dranno benissimo quando ci sarà una casa in ordine.

Non esistono soprammobili, lampade da tavolo, posate-

rie, porcellane fini, coperte da letto, materassi di soffice

lana, specchi, servizi da toletta. O meglio: io l’ho comprati,

ma essi sono chiusi, bene impacchettati, in grandi casse,

nel guardaroba.

Andranno benissimo quando ogni cosa sarà in ordine, ha stabi-

lito la dolce conterranea.

Adoperarli adesso sarebbe un delitto.

Io ho lavorato gorno e notte, per arredare la mia casetta.

Ho comprato sedie, cassettoni, armadi, poltrone tavoli.

Ma neanche per sogno, ha esclamato la delicata creatura dei

miei sogni, appena ha visto le suppellettili.

Andranno benissimo per quando…..

E costruiti con le sue infernali manine di fata degli enormi

sacchi con fettucce, ha coperto accuratamente tutti gli arne-

si. Ma oggi, approfittando della giornata festiva, ho consi-

derato con serenità la faccenda e ho concluso che la cosa

aveva raggiunto i limiti.

– Signora, ho comunicato gravemente alla dolce amministra-

trice dei miei mali, Signora: voi avete chiuso nelle vostre danna-

te casse dell’avvenire tutte le mie giacche perché andranno bene per

Albertino, avete incamerato tutti i miei soprabiti perché andranno

bene per Albertino, avete incamerato tutti i miei soprabiti perché

andranno bene, eccetera eccetera.Mi avete privato delle mie più

decenti camicie, dei miei fazzoletti, dei miei pullover, delle mie

scarpe migliori. Mi avete vietato tutto insomma perché tutto an-

drà benissimo quando….eccetera eccetera.

Signora: la situazione è diventata in questo momento gravissi-

ma. O voi cacciate fuori un paio di calzoni o io sarò costretto a

uscire di casa in mutande! Ecco così! La dolce segretaria dei

miei dispiaceri d’ufficio ha considerato attentamente lo 

spettacolo del suo amministrato in mutande.

Poi ha lanciato un grido:

Ma neanche per sogno! Quelle mutande andranno benissimo

per quando indosserai il vestito sportivo coi calzoni alla zuava.

Levatele e mettile nella seconda cassa!

(Guareschi)






 

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OLTRE LA SOGLIA (il ritratto della ricchezza) (4)

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Dipinti et Opere…

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….L’ultima opera…..

 

il ritratto


frammenti-in-rima.html



 

il ritratto

 









A posare per Rembrandt non era qualche persona semplicemente

agiata, ma il fior fiore della società di Amsterdam.

Tra mercanti come Nicolaes Ruts, con la sua prosperità precaria,

e le grandi dinastie di plutocrati – i Trip, i de Graeff e i Witsen –

c’era un divario abissale. 

 

il ritratto


Quest’ultima era gente che vantava patrimoni di centinaia di migliaia

di gulden, che costituiva il cuore della classe dirigente cittadina,

che veniva ritenuta sufficientemente ricca da poter offrire ospitalità

ai principi di passaggio.

Quando andavano a posare per un pittore, persone di tale levatura

si portavano dietro una piccola corte di serve, segretari e paggi neri

in pantaloni di seta. 

Come ritratttista dell’alta società, Rembrandt guardava più a Van Dyck

che a Rubens; voleva celebrare la fresca eleganza di questi giovani

patrizi in ascesa. E per assecondare il loro amor proprio, raffinò la

sua già eccelsa maestria nel rendere i tessuti, attingendo vette di

puro e suadente illusionismo.


il ritratto


Nelle sue mani lino, trina e seta acquistano respiro e personalità:

ricadono, si torcono. si increspano e si piegano, quasi eseguissero

un’elegante e solenne danza attorno alla sagoma del corpo.

Ma a differenza di Van Dyck e dei suoi aristocratici soggetti,

Rembrandt e i suoi principi del commercio dovevano stare attenti

a non cadere nella trappola della vanità.

Non vivevano in qualche contea o nelle ville all’italiana di Londra,

e durante gli anni Quaranta nei sinodi calvinisti i pronunciamenti

contro la stravaganza che caratterizzava glia abiti e le folte capigliature

alla moda divennero particolarmente infuocati. Così, mentre si

industriava a rendere mirabilmente tangibili i sontuosi dettagli 

dell’abito, Rembrandt fu probabilmente costretto a tener conto della

necessità di suscitare un’impressione generale di modestia e 

pacatezza. 

 

il ritratto


Durante quegli anni, Rembrandt sfruttò espedienti di questo genere

anche negli altri ritratti dei suoi ricchi committenti.

Alijdt Adriaensdochter era la vedova del massimo uomo d’affari

di Dordrecht, che in quell’epoca di continui conflitti aveva messo in 

piedi un colossale impero multinazionale e paneuropeo del ferro e

delle munizioni.

 

il ritratto


Compito di Rembrandt era di far apparire la modestia e la devozione

autentica della vedova, sì da trasmettere l’impressione che ella fosse

uscita direttamente dalle pagine di uno dei sentenziosi brevari di

morale dedicati da Jacob Cats alle fasi della vita femminile.

La parte più spettacolare doveva essere riservata ai dettagli.

Così nell’ossequiare i costumi dell’antica virtù – la grande gorgeria -,

l’artista riesce a farne terreno di vistuosismo pittorico, dedicandovi

maggiori cure che a qualsiasi altra parte del dipinto.

Il candore del collare è talmente intenso da illuminare gli scabri,

mediocri della donna, immergendoli in una pallida aura di virtù. 

Come si conveniva a una persona del suo rango, Alijdt Adriaens-

dochter viveva in una delle più fastose dimore dello Herengracht,

dove il suo ritratto teneva probabilmente compagnia a quello della

figlia, Maria Trip. 

 

il ritratto


Da brava ragazza nubile della nuova generazione – quando Rembrandt

la ritrasse aveva circa vent’anni -, Maria indossa un abito più sfarzoso

e deliberatamente alla moda. Il vistoso colletto a più strati, con smerlo

di pizzo, è raffigurato con stupefacente verosimiglianza.

Tuttavia, la tecnica di Rembrandt non è affatto asservita alla pura

descrizione. Al contrario, per rendere la tridimensionalità della 

superficie, il pittore comincia qui a distribuire audaci colpi di pennello,

pastosi tocchi sciolti e spezzati. Nel ritratto della dama, il suo volto

è semplice quanto il suo costume è elaborato.

Maria indossa il proprio lusso, ma il suo oro è la virtù. 

Al di là di quelle trine, è la figlia di sua madre, una brava fanciulla

cristiana.

Come far vivere quei soggetti, come infondere loro movimento mentre

se ne stavano seduti in trono o rimanevano in piedi a osservare il

ritrattista?

Rembrandt si trovò sempre più impegnato a sperimentare soluzioni

compositive che, invece di chiudere i soggetti in uno spazio pittorico

convenzionale, li proiettassero all’esterno, facendoli entrare nello

spazio ‘reale’ dell’osservatore. Naturalmente non fu lui ad inventare

l’illusione ottica. 

Rembrandt fece un passo più in là dei suoi maestri, trasformando

la cornice del quadro da limite solido esterno della rappresentazione

a suo elemento interno. Invece di fungere da chiaro confine tra il

mondo concreto dell’osservatore e il mondo delle immagini, la cornice

si trasforma sorprendentemente in una soglia capace di dissolversi,

come lo specchio di Alice, un’inquietante porta attraverso la quale

osservato e osservatore hanno libero passaggio.

(S. Schama, Gli occhi di Rembrandt)





 

 

il ritratto