Il dialogo:
a quell’essere nascosto nel folto del bosco
Prosegue in:
dialogo con l’uomo del bosco &
Prosegue in:
Su un punto il capitano Wawn è cristallino: egli non approva i
missionari.
Ostacolano il suo lavoro.
Fanno del ‘reclutamento’, come lo chiama lui (‘caccia allo schiavo’,
come lo chiamano ‘loro’ senza mezzi termini), un problema, quando
non dovrebbe essere un picnic, una gita di piacere. I missionari hanno
la loro opinione sul modo in cui è gestita la tratta dei lavoratori, e sulle
infrazioni, da parte del reclutatore, della legge sulla tratta, nonché
sulla tratta in sé: ed è decisamente poco gentile nei confronti della
tratta e di tutto ciò che a essa è connesso, ivi compresa le legge che
dovrebbe regolarla.
Il libro del capitano Wawn è assai recente; ho a disposizione un
pamphlet ancora più recente – fresco di stampa, in verità – scritto
dal reverendo William Gray, un missionario; e il libro e il pamphlet,
presi insieme, costituiscono a mio avviso una lettura estremamente
interessante.
Interessante, e di agevole comprensione – eccezion fatta per un dettaglio,
che vado a menzionare. E’ facile comprendere perché il proprietario
di canna da zucchero del Queensland voglia la recluta kanaka:
costa poco.
Pochissimo, a dire il vero.
Ecco le cifre pagate dal proprietario: 20 sterline al reclutatore per
procurare il kanaka, o ‘catturarlo’, per usare le parole dei missionari;
3 sterline al governo del Queensland per ‘sovrintendere’ all’importazione;
5 sterline depositate presso il governo per il ritorno del kanaka a
casa quando saranno trascorsi tre anni, nel caso egli viva tanto a
lungo; circa 25 sterline al kanaka stesso, per il salario e l’abbigliamento
di tre anni; pagamento totale per tre anni d’uso di un uomo, 53 sterline;
o 60 dieta inclusa.
Tutto compreso, un centinaio di dollari l’anno.
Non è difficile comprendere perché il reclutatore sia entusiasta del
lavoro; la recluta costa un pugno di regalucci (dati ai parenti della
recluta, non alla recluta stessa), e la recluta, una volta portata nel
Queensland, frutta al reclutatore 20 sterline.
Tutto ciò è abbastanza chiaro, meno chiaro è che cosa in tutto questo
convinca la recluta. Egli è giovane e pieno di energia; la vita a casa
sua, nella sua splendida isola, è per lui una lunga, rilassata vacanza;
diversamente, se vuole lavorare, può intrecciare un paio di borse di
copra la settimana e venderle per quattro o cinque scellini l’una.
Nel Queensland deve svegliarsi all’alba e lavorare dalle otto alle
dodici nelle piantagioni di canna da zucchero – in un clima più
caldo di quello cui è abituato – e guadagna meno di quattro scellini
la settimana.
Non riesco a capire perché accetti di andare nel Queensland.
Per quanto mi riguarda, è un rompicapo.
Ecco la spiegazione, dal punto di vista del proprietario; almeno,
dal pamphlet del missionario deduco che si tratti dell’opinione
del proprietario:
‘Quando egli arriva dalla sua isola è un selvaggio, nient’altro.
Non prova vergogna per la sua nudità, né sente il bisogno di
agghindarsi. Quando torna a casa è così ben vestito, ostenta
un orologio Waterbury, colletti, polsini, stivali e gioielli.
Porta con sé uno o più bauli pieni di vestiario, uno strumento
musicale o due, nonché profumi e altri articoli di lusso che ha
imparato ad apprezzare’.
(M. Twain, Seguendo l’equatore)
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dialoghiconpietroautier2.blogspot.com
C’era una volta una terra grande e bella, ma non proprio ricca,
abitata da un popolo come si deve, modesto ma forte, e conten-
to della propria sorte.
Quanto a ricchezza e a vita fastosa, a eleganza e a sfarzo, non
ve n’erano quasi affatto, e vicini più ricchi a volte guardavano
al modesto popolo del grande paese con sufficienza e persino
con pietà.
Certe cose, però, che non possono essere acquisite con denaro
e che tuttavia sono tenute in gran conto dagli esseri umani e-
rano abbondanti tra quella gente che non era celebre per
nientaltro.
E lo erano anzi a tal punto che, con l’andar del tempo, quel
povero paese, nonostante la sua scarsa potenza, divenne
notissimo e fu tenuto in alta considerazione.
Vi fiorivano cose come la musica, la poesia e la filosofia, e
siccome da un grande sapiente, predicatore e poeta non si
pretende che sia ricco, elegante e mondano, e tuttavia lo si
onora per quel che è, lo stesso facevano i popoli più potenti
con la gente meravigliosamente povera di quel paese.
Alzavano le spalle a proposito della sua povertà e della
sua goffaggine per quanto riguardava le cose mondane, ma
parlavano in termini laudativi e senza invidia dei suoi pen-
satori, poeti e musicisti. E un po’ alla volta avvenne che la
terra dell’intelletto restasse povera assoggettata dai vicini,
ma che in pari tempo su questi e sul mondo intero si river-
sasse un flusso continuo, sottile, fertile, di calore umano e
di ricchezza intellettuale.
Una delle ragioni, antichissima e più di ogni altra evidente,
per cui il popolo, non soltanto veniva guardato con suffici-
enza dagli stranieri, ma esso stesso soffriva e stava in pena,
consisteva in ciò, che le diverse stirpi di quel bel paese si tol-
leravano a vicenda solo a fatica.
Continui erano i litigi e le gelosie. E anche se di tanto in tanto
si faceva luce l’idea, e veniva espressa dai migliori del popolo,
che bisognasse unirsi e dedicarsi a pacifiche opere comuni,
la prospettiva che in tal modo una delle molti stirpi oppure
il suo principe assumesse una posizione di predominio rispet-
to agli altri e si assicurasse il potere, riusciva a tal punto intol-
lerabile ai più, che mai si giunse a una vera unione.
La vittoria contro un sovrano e conquistatore straniero, che
aveva imposto un duro giogo al paese, parve finalmente por-
tare alla riunificazione.
Ben presto però ripresero i litigi, i molti signorotti si ribella-
rono all’idea, e i loro sudditi ne avevano ricevuto tanti be-
nefici sotto forma di uffici, titoli e nastrini colorati, che
erano tutti contenti e soddisfatti, e nient’affatto pronti alle
novità.
Nel frattempo, nel mondo intero aveva luogo quella tra-
sformazione, quella singolare metamorfosi degli uomini e
delle cose, che si materializzò, a guisa di spettro o malattia,
a partire dal fumo delle PRIME MACCHINE a vapore, un
po’ alla volta conferendo un nuovo volto all’esistenza.
IL MONDO DIVENNE TUTTO LAVORO e solerzia, venne
DOMINATO DALLE MACCHINE, spronato a sempre nuo-
ve attività.
Si formarono colossali ricchezze, e il continente che aveva
inventato le macchine si assicurò più che mai il dominio sul
resto del mondo, i suoi potenti si spartirono gli altri continen-
ti, lasciando a mani vuote chi potente non era.
Fu come un’inondazione che travolse anche il paese di cui ci
occupiamo, ma la parte che gli toccò fu limitata, come s’addi-
ceva al suo ruolo.
I beni di questo mondo furono ancora una volta spartiti, e il
povero paese una volta ancora restò a mani vuote.
Ed ecco che, all’improvviso, tutto prese un’altra piega.
Le antiche voci che esigevano l’unione delle stirpi non si era-
no mai spente.
Comparve un grande, forte uomo di stato; una fortunata,
splendida vittoria sul grande vicino rafforzò e unì l’intero
paese, le cui stirpi finalmente si fusero e fondarono un gran-
de Impero. E così, la povera terra dei sognatori, dei pensatori
e dei musicisti crebbe, divenne ricca e grande, unificata per-
correva adesso la propria strada quale potenza di pari dirit-
to tra i grandi fratelli maggiori.
Fuori, nel vasto mondo, c’era ormai ben poco da rapinare e
da conquistare, nei continenti lontani la giovane potenza
doveva constatare che le parti erano già state fatte.
Ma lo spirito della MACCHINA, che fino ad allora nel paese
in questione era andato imponendosi solo lentamente, a que-
sto punto conobbe una sorprendente fioritura.
Il paese e il popolo tutto quanto si trasformarono rapidamen-
te. Divennero grandi, ricchi, potenti, temuti.
Accumularono possessi, il paese si circondò di una triplice
cintura difensiva di soldati, cannoni e fortezze.
Ben presto tra i vicini, preoccupati dalla crescita del giovane
stato, si diffusero diffidenza e timore, e anch’essi presero a
costruire valli e a fabbricare cannoni e navi da guerra.
Non era tuttavia questo l’aspetto peggiore. Si aveva abba-
stanza denaro per pagare quelle enormi cinte fortificate, e
nessuno pensava a una guerra, ci si armava per ogni eveni-
enza, non certo per altri motivi, perché le genti ricche sono
soddisfatte soltanto se vedono il loro denaro chiuso tra ro-
buste pareti di ferro.
Assai peggio era ciò che accadeva all’interno del giovane
regno.
Quel popolo che tanto a lungo era stato oggetto di scherno
da parte del resto del mondo, e che era stato rispettato solo
in parte, solo perché aveva tanto spirito e così poco denaro,
quel popolo, dunque, si rese conto di quanto apprezzabili
fossero oro e potere.
E prese a costruire e a risparmiare, a commerciare e a prestare
denaro, a nessuno pareva di arricchirsi abbastanza in fretta, e
chi aveva un mulino o una fucina doveva al più presto posse-
dere una fabbrica, e chi aveva avuto tre garzoni adesso dove-
va avere dieci o venti operai, e ben presto molti ne ebbero cen-
tinai e migliaia.
E più rapidamente le molte braccia e le molte macchine lavo-
ravano, tanto più in fretta si accumulava il denaro nelle mani
di tutti coloro che avessero l’abilità per farlo.
Ma molti, moltissimi lavoratori non erano più garzoni e colla-
boratori di un maestro, ma erano ridotti allo stato di servi e di
schiavi .
Anche in altri paesi accadeva lo stesso, anche là l’opificio si
trasformava in fabbrica, il maestro di bottega diventava il
padrone dispotico, l’operaio si riduceva a schiavo.
Nessun paese al mondo poteva sottrarsi a questo destino, che
però nel giovane regno comportava un risvolto particolare, e
cioè il fatto che il nuovo spirito, il nuovo impulso diffusosi in
tutto il mondo era conciso con la sua nascita.
Il giovane stato non aveva una tradizione alle spalle, non go-
deva di antiche ricchezze, e si gettò nella nuova, tumultuosa
èra come un fanciullo impaziente, senza posa impegnato a
lavorare e ad accumulare oro.
Voci ammonitrici si levarono, certo, a rendere edotto il popo-
lo che era su una cattiva strada, e che richiamava alla ragio-
ne faceva appello ai tempi andati, alla tranquilla, mite fama
di cui aveva goduto il paese, alla missione spirituale di cui
un tempo era stato il portatore, al continuo, nobile flusso di
elaborazioni filosofiche e creazioni musicali e poetiche di
cui in precedenza aveva fatto dono al mondo.
Ma la gente, felice della nuova ricchezza, rideva di quegli
ammonimenti.
Il mondo era tondo, il mondo girava, e se i padri avevano
composto poesie e scritto tomi di filosofia, sì gran bella cosa,
ma i loro nipoti volevano mostrare di essere capaci anche di
altro.
E così costruivano e montavano, nelle loro mille fabbriche,
nuove macchine, nuove locomotive e vagoni, nuove merci
e, per ogni evenienza, anche nuovi fucili e cannoni.
I ricchi si isolarono dal popolo, i poveri lavoratori si videro
abbandonati a se stessi e non pensarono più al popolo, di cui
erano una parte, ma ebbero presente solo la loro condizione,
e per sé soli lottarono.
E i ricchi e i potenti, che avevano fabbricato contro nemici
esterni tutti quei cannoni e fucili, si rallegrarono della loro
preveggenza, dal momento che adesso di nemici ne esiste-
vano anche all’interno, ed erano forse più pericolosi dei
primi.
Tutto questo ebbe però fine con quella grande guerra che
per anni desolò il mondo intero e tra cui rovine ancora ci
aggiriamo, intontiti dal frastuono, amareggiati dalla sua
insensatezza e intossicati dai suoi fiumi di sangue che
continuano a scorrere in tutti i nostri sogni.
E la guerra si concluse in modo tale che quel giovane, fio-
rente impero, i cui figli erano andati in battaglia con entu-
siamo con baldanza, CROLLO’.
Fu vinto, e si trattò di una sconfitta spaventosa.
E i vincitori pretesero, prima ancora che si parlasse di
pace, pesanti tributi dal popolo vinto. E accadde che per
giorni e giorni l’esercito sconfitto rifluisse, mentre in senso
contrario dalla patria in lunghi convogli partivano i sim-
boli della perduta potenza, per essere consegnati al nemi-
co vittorioso.
Dal paese sconfitto uscì una fiumana di macchine, e di
denaro, di cui i nemici si impossessarono.
Nel frattempo, però, il popolo vinto nel momento dell’-
estrema miseria si era ravveduto.
Aveva cacciato i suoi capi e principi, si era dichiarato
autonomo e responsabile. Aveva costruito consigli, reso
nota la propria volontà di risollevarsi dalla disfatta con
le proprie forze e grazie alla propria intelligenza.
Il popolo in questione, che ha raggiunto la maggiore età
attraverso una così dura prova, ancora oggi ignora dove
conduca la strada per cui s’è messo, e chi sarà il suo ca-
po, colui che lo guiderà.
Gli dèi lo sanno, come sanno perché abbiano mandato,
a questo popolo e al mondo tutto, la catastrofe della
guerra.
E dal buio di quelle giornate, traspare una strada, la stra-
da che il popolo deve seguire.
Esso non può ridiventare bambino, non è lecito a nessu-
no. Non può neppure gettar via i suoi cannoni, le sue
macchine, il suo denaro e tornare a chiudersi in pacifi-
che cittadine, a creare poesia e comporre sonate.
Può però procedere lungo la strada che anche il singolo
deve seguire, qualora sia accaduto che l’esistenza che
ha condotto l’abbia portato all’errore e alla sofferenza.
Può ricordarsi della strada che ha seguito in precedenza,
della sua origine e della sua infanzia, del suo diventar
grande, del suo splendore e del suo tramonto e, grazie a
queste memorie, può ritrovare le forze che gli apparten-
gono per sua essenza, in maniera indissolubile.
Questo popolo deve ‘sprofondare in se stesso’, come di-
cono i mistici.
E in se stesso, nell’intimo suo, ritroverà intatta la propria
essenza, e quest’essenza non si separerà dal suo destino,
ma lo assevererà, ritessendolo da capo con ciò che di me-
glio il popolo avrà ritrovato dentro di sé.
E così andranno le cose, se il popolo umiliato seguirà con
volontà sincera la strada del destino, recupererà qualcosa
di ciò che un tempo è stato.
Come prima, da questo popolo si diffonderà una tranquil-
la, ininterrotta corrente che penetrerà di sé il mondo, e
coloro che oggi non sono più suoi nemici, in futuro torne-
ranno a prestare orecchio, commossi, al fruscio di codesto
placido fiume.
(Hermann Hesse, Leggende e fiabe)
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Seduto lì, a suo agio, quasi serenamente aduso ai pellegrini
e abituato a darne per scontato l’omaggio, quel luogo aveva
le stesse sembianze di una matrona della ‘vecchia scuola’
del New England compunta e raffinata – la vedova di una
grande celebrità – la quale, avendo continuato negli anni a
disporre di tutte le sue reliquie e proprietà, benché non di-
rettamente votata alle chiacchiere né al giornalismo, era
divenuta, per quanto riguardava le sue evoluzioni nella
grande società del passato, del tutto amabile, moderna e
responsiva.
Dalla sua posizione, dalla sua sedia dall’alto schienale,
accanto alla finestra che domina gran parte del viavai,
ella alza lo sguardo vivace dal suo lavoro a maglia, sen-
za sentirsi, ancora, affatto limitata in questa sua attività,
e senza che nulla suggerisce davvero la possibilità di un
limite, salvo una traccia di quella perdita di prospetti-
va temporale in cui riconosce l’effetto sulla mente di un
gran carico d’anni.
…..Lui esce dal parco come un gallo ignorando tutti e
tutto….
A un certo punto lo vedo andare nel retrobottega illumi-
nato e poi tornare con una bottiglia e la cornetta.
Prima prova a bere ma scoppia a piangere e mette la bot-
tiglia nel lavabo. Vengono le lacrime agli occhi anche a
me. Mi viene da pensare a tutti gli uomini che hanno bal-
lato alla sua musica e alle donne che l’idolatravano quan-
do lo vedevano pavoneggiarsi per la strada.
Dove sono ora, dico tra me e me.
Poi sento la cornetta di Bolden suonare, piano, e attraver-
so la strada per sentire meglio.
Lui è là, sdraiato sulla poltrona e soffia piano piano nella
tromba d’argento, appena sopra un sussurro, e vedo che
ha messo il cappello sulla campana della cornetta….
Mi pareva di riconoscere i suoi blues d’una volta, ma an-
che gli inni che suonano ai funerali, però quel suono ora
è molto strano e mi metto ad ascoltarlo con attenzione
perché la musica assomiglia un po’ a tutte e due.
Non riesco ad individuare il motivo, ma poi all’improv-
viso capisco.
Li sta mischiando.
Sta suonando il blues e l’inno in modo ancor più triste
del blues e poi il blues in modo ancor più triste dell’inno
funebre.
E’ la prima volta che ho sentito suonare inni e blues mi-
schiati insieme……
Nella piazza principale ci sono le statue degli eroi.
Ci sono le statue di chi costruì le mura, come Buddy Bolden
e King Oliver. Sono state scolpite nei bar, nei locali notturni,
nei bordelli.
Ci sono le statue di chi ha combattuto per salvare la città,
come Fletcher Henderson.
Poi ci sono le statue di chi si è immolato allo swing, come
Bix Beiderbecke e Chick Webb, decorati dopo la morte per
le loro performance eroiche.
Infine, nelle sale da concerto dove si suonano i loro capola-
vori, ci sono le statue dei grandi che difesero a lungo le mu-
ra, come Bechet, Armstrong e….Hawk……
(James, La scena americana; M. Ondaatje, Buddy Bolden’s
Blues; D. Ellington, La musica è la mia signora)
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conveniva-esser-muti-in-quegli-anni-duri.html &
una-risata-li-seppellira-tutti.html
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per-poi-fuggir-di-corsa-e-contar-di-nuovo-le-ore.html
Libri, memorie, …dialoghi…& blog…
All’inizio del 34, quando ero completamente squattrinato, rice-
vetti un’offerta di 15.000 $ da parte di un produttore francese
per fare un film a Parigi.
Il produttore non mi mandò niente per coprire le spese di viag-
gio, e per andare là con la mia seconda moglie dovetti vendere
350 $ di Buoni di Risparmio di Guerra che avevo tenuto fin dai
giorni dell’esercito. Bastarono appena per andare in Europa nel
modo meno costoso che riuscii a trovare: su una nave da carico
che andava da Los Angeles a Glasgow, passando per il canale
di Panama.
Dopo esser sbarcati in Scozia viaggiammo fino a Londra e per-
nottammo al Grand Palace Hotel. Lì c’era ad aspettarmi una ma-
gnifica sorpresa, una lettera di Joe Schenck con dentro un asse-
gno di 1000 $. Scriveva che era la somma che mi spettava dalla
vendita di certa attrezzatura rimasta dopo la liquidazione dei
miei studios.
Non ricordavo alcuna attrezzatura rimasta e sospettai che fosse
un modo gentile di darmi una mano da parte di Joe. Non ero
nella posizione di rifiutare.
Era arrivata all’ultimo momento utile per pagare certi pressanti
debiti che avevo a Hollywood. Chissà perché mi è sempre rimas-
to impossibile chiedere soldi in prestito. Forse a che vedere con
il fatto che ho pagato con soldi miei fin da quando avevo quattro
anni.
Un certo senso di folle orgoglio, poi, mi impediva persino di chie-
dere agli amici che mi rendessero i soldi che gli avevo prestato
quando guadagnavo 3000 $ alla settimana.
Quando mi trovai sul lastrico, avevo prestato 15.000 $ che non mi
erano stati resi, senza contare tutti i biglietti da 10, da 20 e da 50
che ogni star del cinema deve allungare ai colleghi sfortunati.
Alcuni degli amici ai quali prestai dei soldi non poterono render-
meli. Successe così con Arbuckle, che morì dovendomi 2500 $,
e con Lew Cody, che morì dovendome 2000 $.
Ma c’erano diversi altri, inclusi una star dei film di cowboy, un
noto comico, e un vecchio amico che ereditò una fortuna, che
avrebbero potuto rendermi i soldi e non lo fecero.
Uno di quelli che pagarono fu Norman Kerry, che Hollywood
aveva messo da parte tacciandolo di essere un attore irrespon-
sabile che beveva troppo. Kerry venne da me un giorno e chie-
se:
– Ti ricordi quando, quattro anni fa, ti chiesi in prestito 1000 $?
– Ora che me lo ricordi, sì Norman,
gli risposi.
– Ecco, ho appena finito un lavoretto,
spiegò,
– Ed ecco i tuoi 1000 $. Ma non posso darteli tutti. Ho bisogno
di qualcosa per vivere. Ti andrebbe bene se ti dessi solo 900 $
e mi tenessi il resto?
Il mio vecchio amico Norman Kerry è morto di recente, ma non
dimenticherò mai né lui né il giorno in cui mi dette il 90% dei
primi 1000 $ che vedeva da parecchi mesi.
Posso anche dare un bacio sincero all’International Revenue Bu-
reau per avermi aiutato nel momento del bisogno. Nel bel mezzo
dei miei problemi il fisco mi informò che dovevo pagare 18.000
$, ma dopo aver loro fatto vedere i miei registri e dopo averli
convinti che i miei guadagni attuali erano l’ombra di quelli che
erano stati in passato, si offrirono di chiudere il caso con 4000 $.
Mi piace avere cose costose, ma non mi turbò dover cambiare la
mia Cadillac con una Ford, o dovermi mettere vestiti confeziona-
ti e non fatti su misura, o vivere senza persone di servizio in un
bungalow da pochi soldi……
(Buster Keaton, Memorie a rotta di collo)
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Un sito:
Era dicembre e me ne andavo per la Fifth Street, la famosa
grande Skid Row, la strada più incasinata di tutte.
Cristo che pioggia e che vento quella notte!
Le nuvole si muovevano basse e travolgevano la strada co-
me una mandria di bufali scatenati.
A un certo punto mi imbattei in un suonatore di chitarra,
stava piantato in un angolo buio e di nome faceva Cisco
Kid.
Era un tipo con le gambe lunghe, che aveva l’abitudine di
camminare rullando come se stesse sempre su una nave.
Aveva viaggiato parecchio per mare e toccato molti porti,
insomma i suoi ventisei anni li aveva vissuti abbastanza
intensamente.
Cantava bene, anche in falsetto, e strimpellava non male:
come me, con la pioggia o il sole, il freddo o il caldo, se ne
andava sempre con la chitarra a tracolla appesa con una
cinghia di cuoio.
Insieme percorremmo la Skid Row sbirciando dentro i bar
e le taverne tra le rumorose intermittenze delle insegne al
neon, alla ricerca di una comitiva da rallegrare.
Le vetrine macchiate e sporche, che neanche quel diluvio
riusciva a lavare, e le porte vecchie e malandate davano ai
locali un aspetto pallido e malato; all’interno uomini e don-
ne, ricchi e poveri se ne stavano tristemente a parlare del
più e del meno.
Fuori qualche edicola cercava disperatamente di rimanere
aperta sotto la pioggia, per vendere ai pochi passanti fretto-
losi e fradici i giornali e i biglietti delle corse dei cavalli.
Le sale per le scommesse puzzavano fino all’inverosimile
di fumo stantio, di sputo e di sudore, affollate com’erano di
gente che urlava e bestemmiava sulle proprie scommesse.
Le vetrine dei banchi dei pegni erano stracolme di articoli
di ogni genere, buttati lì o appesi, impegnati probabilmente
proprio dalle persone che ne avevano più bisogno.
C’erano arnesi da lavoro, pale, pialle, pannelli, compassi,
rubinetti di ottone, strumenti idraulici, seghe, asce, grossi
orologi che non camminavano dai tempi dell’ultima guerra,
tende e sacchi a pelo portati via ai vagabondi.
Ecco una tavola calda: lucidi sgabelli imbottiti, un banco
con tanti cibi, cibi allineati, e gente che mentre mastica e in-
goia spera che su Skid Row insieme alla pioggia caschi an-
che un po’ di fortuna…
Un fiume di rifiuti scorre ai lati della strada, lungo il bordo
del marciapiede; è una poltiglia bituminosa, fatta di pezzi
di carta in decomposizione, calunnie, bugie, letame, e tanta
roba che dai quartieri più ricchi scende giù per la collina…..
(Woody Guthrie, Questa terra è la mia terra)
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contro-la-liberta-dell-arte.html
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una-stanza-tutta-degli-altri.html
La grande guerra aveva illuminato di luce cruda e improvvisa
il declino economico dell’Europa rispetto agli Stati Uniti.
Prima potenza economica mondiale già nel 914, gli USA accele-
larono il ritmo del loro sviluppo; centro propulsore, essi promos-
sero la prosperità degli anni 925-929 e la grande crisi del 929-33.
E furono ancora essi che, decidendo di risolvere la crisi con i pro-
pri mezzi, anziché ricorrendo a una collaborazione internaziona-
le, contribuirono più di ogni altra forza alla compartimentazione
economica del mondo, che costituisce la regola dopo il 1933.
Quando il 6 aprile 917, gli Stati Uniti erano entrati in guerra, l’In-
tesa era finanziariamente a terra. Gli alleati avevano ottenuto
prestiti privati americani, ma il loro credito era pressoché annien-
tato.
Nell’aprile del 917, una legge votata al Congresso diede loro modo
di attingere al Tesoro americano, e su scala ben maggiore.
Ma si tratta di un fatto meno importante di un altro fenomeno: nel
914, gli investimenti americani all’estero ammontavano a 2.500 mi-
lioni di dollari e gli investimenti europei negli USA erano di 4.500-
5.000 milioni di dollari.
Ma, grazie alle loro immense forniture all’Intesa, gli americani vi-
dero riassorbirsi a loro profitto buona parte dei capitali europei in-
vestiti, mentre dal canto loro si trovarono in grado, grazie agli e-
normi benefici accumulati, di investire all’estero oltre 9.000 milio-
ni di dollari.
Che gli Stati Uniti si fossero notevolmente arricchiti durante la
guerra ci è rivelato anche da altre cifre, precisamente quelle re-
lative al prodotto nazionale e all’incremento della domanda di
beni di consumo.
Ebbe insomma luogo un vero e proprio boom economico, l’aspet-
to più spettacolare del quale fu l’incremento dei beni di consumo
durevoli, come automobili, case, frigoriferi e apparecchi radio, e
si raggiunse così quello che Walt Rostow definisce ‘alto consumo
di massa’, grazie al quale gli americani superarono gli europei
per tutti i beni personali.
Certo la miseria continuò a essere retaggio di vasti gruppi della popo-
lazione, e inoltre i patner commerciali degli USA ricavarono relativa-
mente scarsi benefici dall’espansione; ma ciò non toglie che una nuova
forma di vita umana facesse la propria comparsa, e che ad essa gli eu-
ropei guardassero con un misto di invidia ed ironia.
Grazie a questa prospettiva e preponderanza, fino al 929 gli USA
imposero la propria volontà sul mercato finanziario internaziona-
le, nel quale, dopo il 29, esportarono la crisi e i suoi disastri.
Per comprendere a fondo il sistema, che ebbe corso in quei anni,
bisogna prendere le mosse dai grandi debiti interstatali causati
dalla guerra, in primo luogo ‘le riparazioni tedesche’, il cui prin-
cipio era stato imposto dal trattato di Versailles.
Una seconda categoria comprendeva i debiti che i paesi dell’Intesa
avevano contratto reciprocamente e soprattutto verso il Tesoro de-
gli USA.
L’ammontare delle ‘riparazioni’ tedesche fu fissato solo dallo ‘stato
dei pagamenti’ del 1° maggio del 921 e risultò di 126 miliardi di mar-
chi d’oro.
Cifra illusoria, essendo rappresentata simbolicamente da obbliga-
zioni A, B e C, e che era un mezzo grossolano per nascondere ai
francesi ossessionati dallo slogan ‘la Germania pagherà’ che in
effetti si rinunciava a 76 miliardi sui 126 dovuti.
I creditori principali erano la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e il
Belgio in ordine decrescente.
I tedeschi, unanimamente ostili alle ‘riparazioni’, esitavano tra
due politiche: il rifiuto e l’adempimento. Nel 921, gli alleati prati-
carono una politica di ricostruzione, e il piano Dawes del 924, la
cui durata era prevista in cinque anni, fissava i pagamenti che
la Germania avrebbe dovuto effettuare in rate annuali da 1 a 2,5
miliardi di marchi d’oro, il cui trasferimento in divise non sareb-
be più stato compiuto dalla Germania, bensì da un ‘agente gene-
rale delle riparazioni’ con sede a Berlino.
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‘Mio padre venne qui nel 1915. Suo fratello venne qui e lavo-
rò un anno in miniera, poi tornò indietro e riportò mio padre
e suo fratello con sé. Da Montefiascone’ (L. Marsili).
‘Comunque mio padre, a diciannove anni – era nato nel 1919 –
lui e mio zio e un cugino di secondo grado, mio zio Frank e
mio cugino Frank – mio padre venne qui. Parlava solo un po’
d’inglese’ (J. Scopa Jr).
‘Arrivavano compagnie minerarie nuove’, scrive G.C. Jones:
‘Pareva che ogni giorno si apriva una miniera e cominciava
a produrre carbone dal giorno alla notte, e tutti i minatori e-
rano stranieri a queste colline.
Tanti venivano da posti lontani come l’Italia, e ne ho cono-
sciuti altri che dicevano che venivano dalla Scozia, dall’Ir-
landa e dall’Inghilterra’.
Nel 1910, a Harlan c’erano in tutto nove residenti nati all’-
estero o con genitori nati all’estero; nel 1930, ce n’erano ol-
tre 2000 (1374 di origine mista, 822 stranieri), concentrati
per lo più nelle città minerarie di Lynch e di Benham.
Tuttavia, la regione appalachiana, con le sue montagne e
miniere, aveva cominciato a importare immigrati fin dall’-
inizio del boom del carbone.
Nel 1909, le contee minerarie dell’Appalachia contavano
non meno di 3162 italiani, il gruppo immigrato più nume-
roso; in West Virginia, un quarto di tutti i nati all’estero e-
rano italiani.
Nel 1920, Harlan contava immigrati di 21 nazionalità di-
verse; gli italiani (233) erano secondi solo agli ungheresi
(320), ma già nel 1924 li avevano superati.
Frank Majority: ‘Mio padre venne dall’Italia a 15 anni –
1902. All’inizio del Novecento gli Stati Uniti erano pieni
da scoppiare di progetti e c’era carenza di lavoro qualifi-
cato. Muratori, scalpellisti, meccanici di miniera, scava-
tori di carbone, minatori esperti eccetera.
E così, il governo degli Stati Uniti mandò agenti in tutta
l’Europa per cercare questi lavoratori qualificati e portar-
li in Kentucky, West Virginia, Virginia sud-occidentale,
a costruire le ferrovie.
Mio padre aveva già dei parenti qui. E venne dopo, lui e
suo fratello. Suo fratello aveva un anno di meno – 15 o 14′.
(A. Portelli, America Profonda)