COSA ERA SUCCESSO? (vedere & capire) (22)

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Il ritorno (21)

Prosegue in:

La nube purpurea (23) &

Predica della domenica

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Cosa era successo? &

La nube purpurea &

Il Primo Pensiero  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

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Ciò che vediamo,

in quanto opposto

a ciò che percepiamo

(con gli occhi dell’anima),

‘è una sfida al senso comune’….

(René Magritte)

 

 

 

 

Il fatto che io avessi perseverato con tante fatiche, nella mia decisione

di raggiungere quella illimitata catacomba, oggi mi sembra del tutto

fantastico: dopo tutto quello che avevo visto, difficilmente potevo

sperare di imbattarmi in altri sopravvissuti come me; sebbene serbas-

si, lo ricordo, la speranza (irrazionale) di trovare, nonostante tutto,

nascosto da qualche parte, un cane o un gatto, e spesso ricordavo a-

maramente Reinhardt il mio cane artico, che avevo ucciso con la mia

propria mano.

 

cosa era successo?

 

Ma in realtà ci doveva essere in me il desiderio di accertare come si

erano svolte veramente le cose, o almeno quel che gli uomini erano

riusciti a capire o a indovinare, per cupidamente godermi tutta quel-

la tragedia, quel calice di fremiti, quel riversarsi delle fiale della col-

lera, nel corso dei mesi precedenti l’arrivo della fine dei tempi.

Questa curiosità aveva in ogni luogo reso preminente tra i miei pen-

sieri quello di dar la caccia ai giornali; ma fino a quel giorno ne avevo

trovati soltanto quattro, tutti in data anteriore a quella del giornale

letto a Dover.

 

cosa era successo?

 

Le date mi permettevano comunque di farmi un’idea del momento

in cui i quotidiani avevano interrotto la pubblicazione, probabilmen-

te il 17 luglio, ossia tre mesi prima dopo il mio arrivo al Polo; perché

non ne trovai uno che portasse una data posteriore, e neppure vi tro-

vai informazioni di carattere scientifico, soltanto preghiere e dispera-

zione. 

Perciò, non appena arrivato a Londra, mi diressi subito verso la reda-

zione del ‘Times’; mi fermai soltanto un attimo davanti alla farmacia

di Oxford Street, per prendere una bottiglietta di antisettico da tene-

re sotto il naso, sebbene una volta uscito dai dintorni di Paddington

questa precauzione fosse diventata piuttosto superflua.

 

cosa era successo?

 

Così raggiunsi la piazzetta presso la quale il giornale veniva stampato;

anche lì il pavimento era cosparso da vesti esotiche, calpac e pugarì,

neri abiti e frangiati scialli da preghiera, scarpe con chiodi e sandali,

sete a striscie e lungi con figure stampate, tutto mescolato alla rinfusa

e molto mal ridotto.

Attraversai la piazza buia per raggiungere il doppiamente buio impo-

nente edificio, nel quale trovai aperta la porta di un ufficio di inserzio-

ni; ma quando accesi un fiammifero mi accorsi che c’erano solamente

lampade elettriche, così dovetti tornare indietro, inciampando dapper-

tutto, finché non scoprii in un vicolo un negozio dove vendevano lumi;

e adesso mi movevo con speciale cura di non offendere nessuno, perché

in quella piazzetta chiusa cominciavo a sentire brividi; accendevo un

fiammifero dopo l’altro, e così immobile era l’aria nera che la fiamma

nemmeno vacillava.

 

cosa era successo?

 

Quando ritornai all’ufficio del ‘Times’ con una piccola lanterna accesa,

vidi su un tavolo una ‘collezione’ del giornale; poiché là dentro c’era

una quantità di morti, e volevo stare solo, preso il grosso pacco sotto

un braccio, nell’altra mano la lanterna, saltai dietro un banco e salii per

una scala che mi portò nell’interno di un grande edificio; un labirinto

di gradini e corridoi, che percorsi con occhi attenti alla luce di quella

lanterna ovviamente tremante nella mia mano, perché anche qui c’erano

dei morti.

Finalmente arrivai in una maestosa sala, come quella di un consiglio

di amministrazione, con ampie poltrone allineate lungo un tavolo co-

perto di stoffa spessa e morbida, e su questo tavolo c’erano mucchi

di manoscritti cosparsi di polvere rossiccia, e tutt’intorno scaffali con

libri.

 

cosa era successo?

 

Questa stanza era stata chiusa a chiave, dall’interno, da un uomo che

indossava una cerimoniosa giacca lunga a doppio petto; un uomo

alto dalla barbetta grigia, a punta, il quale poi a un certo momento a-

veva deciso di scappare via, perché giaceva sulla porta, come se fosse

morto nell’atto di aprirla; lo presi per le scarpe e lo trascinai fuori, poi

mi chiusi io stesso a chiave nella camera, mi sedetti davanti al mio pol-

veroso mucchio di giornali, vi posai la lanterna accanto, e cominciai

a investigare e a leggere fino al mattino inoltrato: ma soltanto il cielo

può dire….

Non avevo riempito bene di petrolio il piccolo serbatoio della lampada;

così accadde che verso le tre del mattino cominciò ad oscurarsi e ad

abbassarsi, a fare scintille e a sporcare di fumo il vetro; e nel mio cuore

c’era la domanda: ‘Se per caso la lanterna si spegne prima che faccia

giorno….’.

 

cosa era successo?

 

Conoscevo il Polo e il freddo, li conoscevo, ma sentirsi gelare dal terrore….

Leggevo, come ho detto, studiavo, non volevo fermarmi; ma quella not-

te fui straziato da terrori panici quali mai il mio cuore si è sognato di

immaginare; la mia carne mortale si agitava e fremeva come uno stagno

sulla cui superficie, qua e là, spira una brezza di vento.

A volte per lo spazio di tre, quattro minuti, il profondo interesse di ciò

che leggevo assorbiva la mia mente; poi mi capitava di percorrere un’

intera colonna, o due, senza capire il senso di una sola frase, tutto il

mio cervello era come succhiato dalle truppe innumerevoli accampate

intorno a me, sedotto dall’idea che a un certo punto si sarebbero sve-

gliate, e alzate, per accusarmi: perché il verme era diventato il mondo,

 

cosa era successo?

 

e nell’aria c’era un muoversi di sudari, e il sapore del grigio dei fantasmi

sembrava infettare la mia gola, e gli odori dell’abominevole fare del mio

naso una tomba, e vibrazioni profonde di campane riempivano le mie

orecchie.

Verso la fine il lume divenne piccolo, sempre più smorto, e la mia im-

maginazione da ossario ormai piena zeppa di bare che si schiodavano,

di cancelli di camposanto e di becchini, dell’attrito stridente delle cor-

de che calano la bara nella fossa, del primo tonfo di terriccio sul coper-

chio di quella dimora sparuta e buia dei mortali.

 

cosa era successo?

 

Quell’immagine letale di dita fredde e morte, mi sembrava vederla da-

vanti a me, l’insipidezza delle lingue morte, il broncio delle labbra

degli annegati e le spume svaporate che le orlano; finché il mio corpo

non divenne madido, come bagnato dalle acque di scolo degli obitori,

e dai sudori che i cadaveri traspirano, e dalla lacrima nauseante che

si ferma sulle gote dei morti: perché, che può fare un unico insignifi-

cante uomo, avvolto nella sua veste di carne, davanti a moltitudini di

eserciti ….. (prosegue in: la nube purpurea)

 

 

 

  

 

 

cosa era successo?

   

LA PARETE (19)

Precedente capitolo:

Il ‘Libretto’ da guida (17/18)

Prosegue in:

Masi o piste? (20)

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Il ‘Libretto’ da guida  (13)  &  (14)

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i miei libri

 

 

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Non era ancora giorno quando partimmo, il vecchio

Stratzinger, guida alpina e ottimo amico, mio fratel-

lo Adriano e io, per fare la parete sudest della Ota

Muragl nelle Alpi Oniriche….

Come è caratteristico di quel gruppo, si tratta di una

gigantesca muraglia mista di ghiaccio, roccia, sab-

bia, terra, vegetazione…. e infissi artificiali….

Quando uscimmo dal rifugio piovigginava, e compat-

ti filoni di nubi rivestivano completamente le monta-

gne. Confesso che me ne rallegrai perché il più ac-

canito alpinista si rallegra, in un primo momento, se

il Tempo gli impedisce di sfidare il pericolo, salvo poi

a piangere lacrime amare per l’occasione perduta.

Senonché Stratzinger disse:

– Fortunati, siamo, oggi sarà una bellissima giornata.

E immediatamente le fasce di nubi si dissolsero, re-

stò soltanto un argenteo velo di neve pulviscola dietro

al quale si spalancarono il cielo violetto e la potente

parete della Ota Muragl, già inondata di sole…

Ci legammo in cordata e si attaccò un erto canalone

di ghiaccio vivo nel quale però i ramponi entravano co-

me fosse burro. Ai lati, sulle due precipitose quinte di

roccia che chiudevano il canalone, finestre e porte si

aprivano e chiudevano, le donne di casa dandosi un

gran daffare per pulire, lucidare, mettere in ordine.

Ci vedevano benissimo, naturalmente, vicini com’era-

vamo, ma sembrava che non se ne interessassero af-

fatto.

Tutta la parete, del resto, era popolata da gente che

scriveva in piccoli uffici, leggeva, lavorava, ma per lo

più si affollava a far chiacchiere nei caffè sistemati sul-

le cenge e in certe caverne.

A un certo punto ci trovammo alle prese con un perico-

losissimo muro fatto di pietroni tenuti insieme da erbac-

ce e radici (ed anche da altro… che qui è bene non di-

re…).

Tutto mollava.

Stratzinger propose di tornare.

Noi due fratelli insistendo, lui disse che allora era me-

glio slegarsi. Tanto, se uno cadeva, gli altri, non poten-

dosi in alcun modo affrancare, lo avrebbero seguito fa-

talmente nella catastrofe.

Poco dopo Stratzinger e mio fratello disparvero dietro

un costolone. Io mi trovai aggrappato a un macigno che,

trattenuto solo da filamenti vegetali, dondolava in modo

pauroso.

A tre metri di distanza, in una cavità della parete, un fol-

to gruppo stava prendendo l’aperitivo. Prima che il maci-

gno si staccasse trascinandomi nel baratro, con un bal-

zo disperato riuscii ad afferrare un telaio metallico che

sporgeva a mensola dalle rocce, forse allo scopo di so-

stenere una tenda.

– Agile però per la sua età!

commentò sorridendo un giovanotto affacciato all’aper-

tura della grotta. Aggrappato con le mani al telaio di fer-

ro, il corpo penzolante nel vuoto, cercavo con le estre-

me forze di issarmi.

Il macigno, sotto di me, stava ancora rimbombando nel-

le viscere profonde della voragine. Purtroppo, sotto il pe-

so, il telaio accennò a piegarsi, cedendo.

Era chiaro che stava per rompersi…

Non sarebbe costato niente, a quelli là dell’aperitivo, ten-

dermi una mano e salvarmi. Ma ormai non si occupava-

no più di me.

Mentre cominciavo a precipitare, nel silenzio sacro del-

la montagna, li potei udire distintamente che discorreva-

no del Vietnam, del campionato di calcio, del Cantagiro,

ed altri accennavano a delle calunnie… gridate e coman-

date… foglie di coca che adornano alberi di invisibili capi-

tani…..

(Dino Buzzati, I fuorilegge della montagna)

 

 

 

 

 

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GIU’ NELL’ALBERGO (15)

Precedente capitolo:

Andiamo! (13/14)

Prosegue in:

Giù nell’albergo (16)

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Andiamo!  (11)  &  (12)

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Tenuto consiglio colle guide, si stabilì di compiere

prima la traversata dei Charmoz e poscia di tenta-

re il Réquin, come chiusura….

Ed allora, per tranquillare le nostre famiglie, telegra-

fammo a casa che la campagna era finita e che ci

si avviava pel ritorno.

Fummo prigionieri due giorni in causa del tempo in-

certo. Il Petit Dru, strana vetta che è dura persin nel

nome, andava coprendosi talora di fitte nubi minac-

ciose o coprendosi fantasticamente d’un tratto, e

sembrava ora crescere, ora scemare in altezza.

Era il barometro delle nostre speranze e segnava

variabile… In quelle ore di noia ebbi campo a studia-

re l’ambiente curioso di Montanvert. Il paesino è il ve-

stibolo di uno dei templi più grandi e più venerati dell’-

Alpi, il punto di contatto, la frontiera fra una piccola o-

ligarchia di alpinisti ed una grande (ed apparente) re-

pubblica di non alpinisti.

In quella zona neutra, che è l’albergo, s’incontrano

quelli che scendono dalle pericolose cime con quelli

che salgono dalla valle senza alcun desiderio di arri-

vare più alto; e gli uni guardano gli altri con indifferen-

za, come genti di lingue diverse, e destinate a non…

comprendersi mai!

Vidi centinaia di viaggiatori salire da Chamonix, osser-

vare, guardare e scrutare col binocolo (gli avventurieri,

gli intrepidi conquistatori del nulla….), bere una bottiglia,

e ripartire per Chamonix (attenti solo ai loro forzieri…).

I più coraggiosi s’imbarcano per la traversata del Mare

di ghiaccio; essi discorrono con inquietudine del ‘mau-

vais pas’ che troveranno su l’altra sponda….

 

(Prosegue….)

 

 

 

 

 

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LE BESTEMMIE DI PIAZ (11)

Precedente capitolo:

Con ‘Satana’ sulle torri (9/10)

Prosegue in:

Le bestemmie di Piaz (12)

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Con ‘Satana’ sulle torri  (9)  &  (10)

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Ormai si procedeva da tre ore e forse un dugento

metri erano già superati quando d’un tratto s’udì al

di sotto il triste scroscio di pietre che si staccano e

subito il fragore dei colpi di un masso che precipita

e voci d’allarme e un grido acuto, indimenticabile,

un grido di donna, lungo che non voleva finire…

Era un urlo di terrore e di dolore, uno di quegli ulu-

lati umani che s’odono fra le mura degli spedali….

Fra’ colpi già lontani dei sassi rovinati, il grido decli-

nava in un lamento che si affievolì e si spense nello

strepitio delle ultime scheggie che battevan sul fon-

do.

Non si udì più nulla; per un attimo, tutto su della cor-

data. Fu un silenzio altissimo. Che cos’era avvenu-

to?

Sospeso ad una rupe, con uno sforzo mi trassi in

luogo più sicuro ed ascoltai; mi parve lungo il tem-

po…. Ruppe il silenzio un altro suono terribile, una

voce piena d’ira, una valanga d’imprecazione e di

bestemmie….

Era la furia di Tita; non mai i nomi del Diavolo e dei

santi proruppero così violenti in luogo così spavento-

so….. Malediceva tutti, la povera signora, un medico

a noi sconosciuto… e le guide e uno più di tutti gli al-

tri che non nominava e che egli credeva colpevole di

aver smosso la… Pietra (di antico Tomo.. in coperti-

na vestita ed assisa nella materia nutrita…); per quel-

lo erano gli insulti più atroci:

– ASSASSINO!

gli diceva; ma Ugo, innocente, a cui eran rivolti, non

li poteva udire, ché la voce non discende……

Là di sotto gli uomini invisibili discutevano, ma non tut-

ti posson comprendere ciò che in realtà dicessero…..

 

(Prosegue…)

 

(G. Rey, Alpinismo acrobatico)

 

 

 

 

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