LE BALENE (e non solo) PARLANO, CANTANO, ASCOLTANO (19)

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Aristotele non ignorava che i delfini ‘parlano‘.

Lo scrisse, ma la sua testimonianza fu trascurata, oppure fu creduta leggenda

fino al giorno che la marina americana, durante la seconda guerra mondiale,

immerse lungo le coste degli Stati Uniti degli idrofoni, battezzati SOFAR,

destinati a rivelare l’avvicinarsi dei sottomarini nemici. Gli apparecchi si

riempirono di cigolii, miagolii: il mare parlava.

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Furono così scoperte le ‘voci‘ del mondo del silenzio di fondo dei crostacei,

i brontolii dei pesci, i fischi delle focene, i piagnoculii dei delfini, i richiami

dei capodogli, i trilli delle balene. Quanto ai cetacei, le emissioni che diffondono

non hanno tutte carattere di ‘linguaggio‘. Alcune rappresentano non un modo

di esprimersi, ma un sistema per dirigersi. Non è stato l’uomo il primo essere

che si sia guidato con i suoni e gli ultrasuoni negli abissi marini: i cetacei sono

dotati di un sonar, esattamente come, fuori dell’acqua, i pipistrelli. Questo

sistema che permette ai mammiferi marini di sentire gli ostacoli e di avvistare

nemici o prede, è ancora più complesso di quanto si possa immaginare.

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Oggi si pensa che funzioni a due livelli: ad esempio, le frequenze più basse

sarebbero utilizzate dai capodogli per individuare i calamari a grande

profondità, o dai delfini per localizzare prede e ostacoli a distanza, mentre

le frequenze alte servono soprattutto a comunicazioni fra individui della

medesima specie.

La vista che ha tanta importanza nel comportamento dei mammiferi terrestri,

non è il senso principale dei cetacei, nei quali prevale il senso dell’udito. Le

balene e i capodogli regolano e dirigono la loro vita in un universo di suoni.

Benché sprovvisti di corde vocali, parlano e cantano. Ascoltano ed emettono

quei segnali sonori che, riflettendosi, forniscono loro costanti informazioni

sull’ambiente in cui si muovono.

I capodogli grugniscono per scambiarsi le impressioni e gracchiano molto

ritmicamente emettendo stridi assai sonori per esplorare lo spazio. Si

capiscono e si reperiscono fra loro perfettamente, anche alla distanza di più

di tre miglia marine. Questo spiega perché si incontrino individui giovani

isolati lontani dai genitori: sanno di continuo e reciprocamente dove si

trovano e che cosa fanno. Questa localizzazione e questo stare in ascolto

non sono né automatici né passivi. Penso che i cetacei debbano orientare

emissioni e recezioni, e girarsi come antenne del radar per esplorare lo

spazio. In superficie i capodogli esplorano continuamente gli abissi marini

con il loro sonar: tac, tac, tac, tac….e se scoprono uno o più calamari di

grandi dimensioni sotto di loro, a 600-800 metri, o anche a 1000 metri,

scendono a capofitto e si dirigono verso la preda senza esitazioni. Questa

perpendicolarità del piano del sonar spiega, secondo me, le immersioni dei

capodogli e dei globicefali. Il fracasso dei motori fuoribordo riesce particolarmente

spiacevole a questi animali. Probabilmente è una questione di frequenza. Per

questo, la tattica della ‘giostra’ di un fuoribordo che volteggia come un calabrone

intorno a uno di loro, vicinissimo, è spesso coronata da buon successo. Al centro

di quel cerchio infernale il capodoglio, probabilmente con il sonar disturbato,

rimane in superficie, furibondo di non riuscire a muoversi, perché senza

dubbio la possibilità di immergersi è collegata alle informazioni del sonar.

Se il sonar dà informazioni confuse, sprofondare è impossibile. Qui non

si può parlare di ‘riflessi‘, perché il capodoglio ha uno psichismo abbastanza

sviluppato da fargli operare una scelta nel modo di condursi.

Prima di capire perfettamente l’efficacia del loro sistema acustico, abbiamo

accusato alla leggera i capodogli di mancanza di solidarietà.

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Sbagliatissimo.

Quando uno dei loro è in difficoltà, il capo prende la decisione di far ripiegare

tutto il branco. Ma rimangono tutti nel raggio del sonar, il che può significare

qualche miglio. Se l’incidente si prolunga, mandano un emissario o emissari:

la madre se si tratta di un giovane, un grosso maschio se si tratta di un adulto.

In parecchi casi di questo genere il branco è scomparso un miglio a est del

prigioniero, ed è ricomparso un miglio a ovest trenta o quaranta minuti più

tardi. Dato che per percorrere tale distanza ci vogliono per loro meno di

venti minuti, il gruppo si era certamente fermato un bel momento, chiamando

il compagno, avvertendolo che lo avrebbe aspettato….proprio entro il raggio

di facile ascolto per un animale in superficie.

un sito

www.seashepherd.org

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LA CACCIA (18)

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….Piaceva tanto ai norvegesi che subito dopo la prima guerra mondiale

alcune delle loro baleniere di maggiore stazza si spinsero ancora più a

sud per esplorare le possibilità di un massacro ancora più redditizio.

Quando avvistarono i ghiacci permanenti del pack nell’oceano Antartico,

scoprirono ciò che Herman Melville, il celebre autore di Moby Dick,

credeva sarebbe rimasto per sempre un rifugio inviolabile dove

le balene possono infine ricorrere alle loro cittadelle polari e, tuffandosi sotto quelle

estreme barriere e pareti vitree, risalire tra i campi e i banchi di ghiaccio, e in un

cerchio incantato di eterno dicembre, lanciar la sfida a ogni inseguimento umano

(Cesare Pavese).

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L’ultimo rifugio non esisteva più.

Quando i comandanti delle baleniere riferirono al ritorno di aver trovato una

quantità quasi astronomica di balenottere, né la distanza dell’oceano Antartico

dalle basi né la candida ostilità del clima potereno bastare per proteggere le

balene dalla spietata ingordigia dell’uomo.

All’inizio, la distanza fu un ostacolo. Sul ghiaccio del continente congelato non

era possibile erigere stabilimenti per la lavorazione delle balene, e d’altra parte

le basi sulle isole erano troppo lontane dal Nord.

Nel 1925, comunque, un certo comandante Sorlle, di Vestfold in Norvegia, inventò

l’arma suprema per trasformare ciò che restava delle grandi balene del mondo

in denaro sonante. Il comandante inventò la ‘nave-officina pelagica’, una nave

molto grande, progettata per operare in mare aperto, provvista di un’immensa

apertura a poppa e di una rampa, sulla quale le balene potevano essere trascinate

con l’argano in un impianto combinato che fungeva da mattatoio galleggiante.

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Già la prima di queste navi fu abbastanza grande e resistente per ‘lavorare’ in

navigazione le balene in pratica con qualsiasi tempo; poteva portare provviste

per sei mesi e anche più. Ognuna di queste navi diventò il nucleo di una

flotta paragonabile, con un po’ di cinismo, a un gruppo d’azione delle

marine da guerra moderne. Comprendeva baleniere provviste di un nuovo e

più terribile potenziale d’attacco, battelli-boa per segnalare la presenza delle

carcasse, rimorchiatori per trascinare queste alle navi-officina, nonché navi-

cisterna per rifornire la flotta in navigazione. Ultimato il loro compito, queste

navi-appoggio portavano i prodotti accumulati, risultati dalla lavorazione

delle balene, dalla nave-officina ai mercati lontani. Persino il rudimentale

prototipo di Sorlle era in grado di penetrare a sud fino ai limiti del pack

dell’Antartide, e le versioni successive della stessa nave operavano in

tutto l’oceano Antartico, uccidendo e ‘lavorando’ le balenottere e gli altri

tipi di balena che le baleniere riuscivano a trovare lavorando ventiquatt’

ore al giorno. Ormai non esisteva più un solo posto sul globo dove le

balene potessero rifugiarsi per sfuggire al destino da noi riservato.

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Il successivo massacro non trova precedenti nella storia dello sfruttamento

umano inflitto agli altri esseri viventi. Probabilmente non verrà mai

superato se non altro perché non esiste sul pianeta alcun agglomerato

così grande di animali di grandi dimensioni.

Nel 1931, solo sei anni dopo il viaggio inaugurale della prima nave-officina,

41 di questi natanti, assistiti da 232 baleniere d’assalto, stavano facendo strage

delle balenottere nell’Antartide. Battevano le bandiere delle varie nazioni presso

cui uomini d’affari si erano precipitati a strappare una porzione della redditizia

impresa. Di queste nazioni facevano parte Stati Uniti, Norvegia, Gran Bretagna,

Giappone, Panama, Argentina, Germania e Olanda, ma erano i norvegesi che

dettavano legge, o per conto proprio o mediante gli equipaggi e le navi che

cedevano a nolo o in affitto. Quell’anno, 40.200 balenottere, quasi tutte azzurre,

vennero fatte a pezzi negli stabilimenti galleggianti, e le acque gelide del lontano

Sud si tinsero di rosso.

Un anno di primati per l’industria della caccia alla balena e per gli uomini seduti

intorno ai tavoli dei consigli di amministrazione a Londra, Tokio, New York e

altri bastioni della civiltà. Una di queste navi, la Sir James Clark Ross, attraccò

a New York dopo una campagna di sei mesi nell’Antartide, con un carico consistente,

in parte, in 18.000 tonnellate di olio di balena del valore di oltre due milioni e

mezzo di dollari.

Bei tempi per i balenieri.

Tempi brutti per le balene.

Tra il 1904 e il 1939, oltre due milioni di grandi balene morirono secondo le modalità

prescritte dal mondo moderno degli affari. Nel 1915, l’ultima baleniera norvegese

aveva abbandonato l’ormai devastato Mare delle Balene per prendere parte alla

carneficina nell’Atlantico meridionale. Ma le balene superstiti dell’Atlantico

settentrionale non erano comunque al riparo dagli uomini assassini. Mentre la

minaccia dei sommergibili tedeschi aumentavano nell’Atlantico, gli Alleati

continuarano a varare un numero sempre maggiore di imbarcazioni anti-

sommergibile, finché varie centinaia di cacciatorpedinieri snelli e micidiali non

entrarono in azione contro le balene meccaniche altrettanto micidiali.

Ma gli equipaggi dei cacciatorpedinieri, composti di reclute, avevano bisogno

di essere addestrati, e siccome la natura umana è quella che è, si giunse alla

conclusione che una maniera efficace per aumentare le capacità tecniche dei

marinai sarebbe stata quella di esercitarsi con le balene vive. Da segnalazioni

ufficiose si desume che varie migliaia di balene siano state uccise a scopi

addestrativi. Quasi tutte rimasero vittime delle armi di bordo dei mezzi

militari, ma altre furono ridotte ad ammassi informi di carne quando venivano

usate come bersagli per le cariche di profondità. Esiste il noto esempio di

un cacciatorpediniere che uccideva le balene con azioni di speronamento;

ed è probabile che altre balene siano rimaste vittime di incontri ‘fortuiti’, se

scambiate per sommergibili nemici. Ma nessuno ha tenuto conto del

numero delle balene sacrificate alla Vittoria sul mare.

Tra il 1923 e il 1930, tre stabilimenti norvegesi ripresero a lavorare lungo le

coste settentrionali di Terranova e del Labrador meridionale, uccidendo e

portando a terra 153 balenottere azzurre, 2026 balenottere comuni, 199

megattere nodose, 43 balenottere boreali e 94 capodogli.

(F. Mowat, Mar dei massacri)

un sito

www.seashepherd.org

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