IL MOTIVO DEL SACRIFICIO (la violenza & i violenti) (2)

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Dialoghi con Pietro Autier 2:

La testa del lupo

gli occhi di Atget:

La testa del lupo (2)

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Il carattere straordinario dell’esperienza del sacro violento

lascia inevitabilmente un ricordo duraturo nella comunità

dei linciatori, che ne fanno oggetto di narrazione del mito.

Quest’ultimo non è che il ricordo dell’insperata salvezza

in un momento di estrema crisi; ovvio pensare che ci si ag-

grappi a tale mezzo per scongiurare nuovi scoppi di vio-

lenza o, qualora questi si siano già scatenati, per porvi ter-

mine.

La religione arcaica altro non è che un insieme di pratiche

volte a prevenire o reprimere la violenza intestina medi-

ante la ripetizione controllata del meccanismo del capro

espiatorio; questo spiega l’ubiqua presenza del sacrificio

nel mondo primitivo.

 

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La prima intuizione sulla funzione del sacrificio è proba-

bilmente suggerita da Girard dalla storia di Abramo e Isac-

co, nel quale un ariete viene immolato al posto del figlio:

nel 1965, ancora legato alla tematica edipica, Girard nota

come l’inevitabile scontro tra i desideri rivali del padre e

del figlio sia una potenziale fonte di conflitti violenti.

Tale istituzione è il sacrificio animale, con il quale una vit-

tima vivente ma neutrale, che può essere messa a morte

senza aggravare le divisioni, scongiura il pericolo di una

terribile vendetta intrafamiliare:

 

Sacrificare l’animale è ancora permettere l’esistenza di un

desiderio di violenza incapace di subliminarsi completamen-

te. L’odio di padre e figlio si esaurisce e si appaga in questa

distruzione priva di conseguenze.

 

Si comprende così la funzione del capro-espiatorio di cui

parla l’Antico Testamento, il quale porta via con sé, nel

deserto o nella morte, non tanto i peccati quanto i deside-

ri convergenti, e per questo violenti, dell’intera comunità.

Ma tale visione del sacrificio si riferisce a un sistema socia-

le umano già dato, con istituzioni ben definite come quel-

la familiare; per cogliere la prima origine del fenomeno è

necessario risalire ancora più indietro, all’epoca in cui l’u-

mano non è ancora così impregnato di cultura.

La violenza e il sacro si apre, appunto, con il problema del

sacrificio, del quale offre una soluzione radicalmente inno-

vativa.

Una delle maggiori difficoltà incontrate dall’antropologia

consiste nel fatto che, ritenendo il sacrificio un atto legato

a una divinità ritenuta immaginaria, essa ha finito per de-

stituirlo di qualsiasi funzione.

L’universale diffusione del sacrificio presso tutte le civiltà

arcaiche e l’ambivalenza della sua natura restano dunque

un mistero, che Girard, in possesso di una teoria della vio-

lenza, è in grado di sciogliere a partire da un’intuizione

fondamentale con la quale sono superate d’un colpo le

vecchie teorizzazioni incentrate sull’assunto del sacrifi-

cio come ‘offerta’ o come ‘comunicazione’ con la divinità.

 

Si può supporre che l’immolazione di vittime animali allontani

la violenza da certi esseri che si cerca di proteggere, e la diriga

invece verso altri esseri la cui morte abbia poca o nessuna impor-

tanza.

 

La vera funzione del sacrificio consiste dunque nel fare da

sfogo alla violenza, incanalandola verso oggetti innocui,

capaci di fermarla; esso ha un valore preventivo, nella mi-

sura in cui storna una violenza più grave per mezzo di un

atto controllato e dalle conseguenze prevedibili:

 

Certo, a una sete di violenza che non può essere spenta dalla

sola volontà ascetica, esso non offre che uno sfogo parziale,

temporaneo, ma indefinitivamente rinnovabile e sulla cui ef-

ficacia le testimonianze concordi sono troppe numerose per

venire trascurate.

 

La divinità non gioca, in questo meccanismo, alcun ruolo

reale; eppure la sua costante evocazione da parte dei sa-

crificatori non può essere ovviamente ignorata.

La soluzione di Girard consiste nel ritenere il sacrificio

un atto fondato sul misconoscimento della sua funzione

da parte di coloro che lo praticano:

 

I fedeli non sanno e non debbono sapere qual’è il ruolo svolto

dalla violenza.

Si presuppone sia il Dio a reclamare le vittime; in teoria è lui

il solo a godere del fumo degli olocausti; è lui ad esigere la car-

ne ammucchiata sui suoi altari.

E’ per placare la sua collera che si moltiplicano i sacrifici.

 

La teologia del sacrificio, ossia l’attribuzione della vio-

lenza

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alla divinità si rivela elemento essenziale per la soprav-

vivenza della società, in quanto consente di distinguere

radicalmente la violenza rituale da quella comune; all’-

immolazione viene attribuita una natura sacra, ossia del

tutto separata da quella della vita di tutti i giorni: il san-

gue versato ritualmente purifica il sangue impuro delle

disordinate rivalità umane.

Si tratta di un processo giocato su un equilibrio sottile:

quando il sacrificio non è compiuto nei modi rigidamen-

te prescritti dal rituale, c’è sempre il rischio che esso in-

generi nuova violenza.

Il tema del sacrificio andato storto è diffusissimo nella tra-

gedia greca, dove appare chiaramente come un eccesso

di violenza o una sostituzione impropria, possano scate-

nare ciò che volevano prevenire.

(G. Mormino, L’animale come essere sacrificabile,

Nell’albergo di Adamo)

 

 

 

 

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IL MOTIVO DEL SACRIFICIO (fenomenologia del capro espiatorio) (1)

Prosegue in:

Il motivo del sacrificio (2)

Pagine di storia:

Il grande male

Dialoghi con Pietro Autier 2:

La testa del lupo

gli occhi di Atget:

La testa del lupo (2)

 

 

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Il problema del controllo della violenza emerge ora più

che mai in tutta la sua gravità: se ‘quella strana attività

che chiamiamo guerra’ poté vedere la luce, evidentemen-

te erano già stati sviluppati meccanismi che preservano

dai comportamenti aggressivi un’area ben delimitata, i

cui confini non hanno nulla di naturale:

 

La guerra si sviluppa in maniera evidente tra gruppi molto

vicini, ossia tra uomini che nulla obiettivamente distingue

sul piano della razza, del linguaggio, delle abitudini cultu-

rali. Tra l’esterno nemico e l’interno amico, non c’è reale

differenza e non si capisce come dei montaggi istintuali po-

trebbero spiegare la differenza di comportamento.

(R. Girard)

 

Affermare che esiste un istinto naturale a preservare i

propri congiunti è evidentemente privo di senso, dal

momento che, come è ben visibile, tra gli umani l’assas-

sinio intrafamigliare esiste, anche se non è la regola.

Si deve quindi supporre che, proprio quando l’aumento

dell’aggressività mimetica ha messo ha rischio la nascen-

te specie umana, un meccanismo nuovo si sia innescato;

si tratta, secondo Girard, del fenomeno della vittimizza-

zione del capro-espiatorio:

 

Oltre una certa soglia di potenza mimetica, le società ‘anima-

li’ diventano impossibili. Questa soglia corrisponde dunque

alla soglia di apparizione del ‘meccanismo vittimario’; è la

soglia dell’ominizzazione.

 

Tale meccanismo non è del tutto assente negli animali;

Girard cita a riguardo alcune notissime osservazioni di

Lorenz:

 

Quando due oche avvicinandosi mostrano segnali di ostili-

tà, il più delle volte convogliano la loro aggressività reci-

proca contro un oggetto terzo.

 

Questo comportamento cementa il legame tra gli indi-

vidui dal punto di vista che,

 

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 scrive Lorenz, ‘l’aggressività discriminatoria verso

gli estranei e il vincolo fra i membri del gruppo si inten-

sificano a vicenda’.

Tale fenomeno può essere considerato come

 

il primo abbozzo del futuro meccanismo vittimario proprio

nel suo ruolo di forza ‘idraulica’ che tende a scaricare l’ag-

gressività interindividuale su terzi, 

 

ma l’insufficiente potenza mimetica di cui sono dotati

gli animali non-umani impedisce che al processo parte-

cipi l’intero gruppo.

Non scatta cioè, negli animali, quel meccanismo che sem-

bra essere il vero segreto dell’umanità, ossia l’omicidio col-

lettivo; perché ciò accada, è necessario che la crisi dovuta

alla rivalità tra due individui sfoci in quella lotta genera-

lizzata di tutti contro tutti che, secondo l’intuizione hob-

besiana, costituisce la minaccia gravante in permanenza

sui gruppi umani.

L’inizio dell’umano deve perciò essere posto nel momen-

to di massima crisi, al culmine di quell’implosione socia-

le che colpisce un gruppo ormai incapace di conformarsi

ai ‘dominance patterns’, così efficaci per animali dotati di

una potenza mimetica inferiore.

Nulla, nella costituzione umana, mira a quest’inizio: è

altamente probabile che molti gruppi non abbiano una

soluzione né istintuale né culturale al problema e si so-

no semplicemente estinti.

 

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Ma alcuni gruppi hanno trovato il mezzo per sopravvi-

vere proprio nel momento più difficile, ridirigendo la

violenza di tutti contro tutti verso un unico individuo.

Proprio la potenza della mimesi ha convogliato su un’-

unica vittima gli impulsi violenti: la violenza indiscri-

minata ha prodotto un fenomeno di capro-espiatorio,

ossia l’uccisione collettiva di un ‘unico’ individuio che

si è trovato a essere in condizione di estrema debolez-

za, non difeso da nessuno.

Si tratta della tesi girardiana del ‘linciaggio fondatore’,

da lui elaborata in relazione alla nascita di un ordine

culturale dopo una crisi ma applicabile anche alla na-

scita dell’umano in senso assoluto, a partire da crisi

remotissime intervenute nelle prime fasi dell’evoluzio-

ne, quando l’accresciuta potenza imitativa appena

conseguita con l’incremento delle facoltà cerebrali ha

infranto l’equilibrio sul quale si fondavano i gruppi

pre-umani.

Non vi è ragione per pensare che la violenza sia in

grado di dirigersi da sé verso l’esterno: al contrario,

 

la rabbia, quando ci si abbandoni a essa, è centripeta.

Più è esasperata, più tende a orientarsi verso gli esseri

più vicini e più cari, quelli che in tempi normali sono

meglio protetti dalla regola della non-violenza.

 

E’ fondamentale comprendere come Girard non ri-

conduca il problema del sovrappiù di aggressività

degli esseri umani a un inspiegabile ‘istinto’, a una

tendenza al male innata nell’essere umano: ‘esso fa

tutt’uno con il sovrappiù di mimetismo legato all’-

accrescimento del cervello’.

Gli umani non sono né più buoni né più malvagi de-

gli altri animali: semplicemente, imitano più inten-

samente, portando così all’estremo sia gli elementi

positivi della facoltà di apprendere dai propri simi-

li sia quelli negativi consistenti nello scatenare con-

flitti privi di soluzione pacifica.

Se le rivalità umane hanno assai di frequente quale

risultato finale l’assassinio, come è largamente con-

statabile, le teorie che postulano un accordo con cui

gli umani avrebbero deciso di sospendere la violen-

za peccano di ingenuità: nell’escalation della violen-

za la probabilità che i contendenti si siedano intor-

no ad un tavolo per fissare regole e divieti è nulla.

 

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Porre quindi l’origine delle società umane in un ‘patto

sociale’, come hanno fatto per secoli filosofi contrat-

tualisti, è indulgere a una visione eccessivamente

razionalistica delle cose umane.

La violenza può essere fermata solo da un evento dal

forte impatto emotivo, che doni la pace al gruppo qua-

si senza che gli umani sappiano come e perché.

 

Il carattere congetturale di questa ricostruzione è poten-

zialmente rafforzato dall’esame dei miti fondatori dei

popoli dell’intero pianeta: all’inizio vi è, quasi sempre,

un omicidio, dal quale sono scaturite le istituzioni soci-

ali e, in primo luogo, ‘la religione’ con i suoi riti e i su-

oi divieti.

 

Per spiegare l’assoluta preminenza del religioso nelle

società arcaiche e, al suo interno, di riti di distruzione

quali il sacrificio, è necessario formulare l’ipotesi che

l’atto fondativo del sacro abbia coinciso con l’origine

 

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della società stessa e sia stato un atto violento.

 

Possiamo cioè supporre che, all’apparire di una prima crisi

di violenza interna, il parossismo mimetico abbia portato la

collettività a far convergere l’aggressività verso un ‘unico

individuo’, ucciso unanimamente da tutti gli altri: la furia,

oramai priva di un oggetto, cessa improvvisamente, provo-

cando un mutamento emotivo talmente brusco da far con-

centrare tutta l’attenzione del gruppo sulla vittima.

 

Essa viene vista come responsabile dello straordinario

passaggio dall’eccitazione alla calma, assumendo così

agli occhi dei suoi linciatori uno ‘status’ del tutto ecce-

zionale, preludio alla sua collacazione in una catego-

ria differente da quella degli individui comuni.

 

Davanti al cadavere della vittima si ha l’inizio del sacro,

da intendersi come la categoria dell’assolutamente etero-

geneo.

L’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima, pri-

ma accusata e fatta a pezzi, poi ritenuta autrice della rin-

novata concordia sociale, spiega la duplice natura del sa-

cro, al tempo stesso malefico e benefico.

 

La calma ritrovata può, però, essere nuovamente perdu-

ta con grande facilità; la vittimizzazione del capro-espia-

torio è insufficiente a spiegare la stabilità dei gruppi uma-

ni, a meno che non sia possibile ricavarne un meccanismo

capace di prolungare la durata dell’effetto pacificatore.

Tale pratica, attestata presso tutte le civiltà, è il sacrificio,

che può essere definito come la prima manifestazione del-

la religione e, con essa, dell’intera cultura.

 

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La classificazione degli esseri dipende, nella prospettiva

di Girard, dalle pratiche sacrificali, prima scuola di pen-

siero dell’uomo e luogo in cui si sono forgiati gli strumen-

ti intellettuali che hanno caratterizzato la successiva e-

voluzione.

Sarà dunque qui che andrà ricercata la prima origine del

giudizio con cui l’uomo

 

si attribuisce le prerogative divine, tra-sceglie e separa se

stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli anima-

li suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzio-

ne di facoltà e di forze che gli piace.

(G. Mormino, L’animale come essere sacrificabile,

Nell’albergo di Adamo)

 

 

 

 

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