ANCHE SE ORA IL SUO RICORDO APPARE LONTANO (domani lo rimpiangeranno come un mondo per sempre rovinato)

 
 
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…Quando gli yahgan trovano un pubblico interessato….,

si mettono con piacere a frugare nella memoria per raccontare

storie che avevano sentito tanto tempo prima e a cui ancora cre-

devano fermamente, storie che, ne sono certo, non erano inven-

tate lì per lì al solo fine di intrattenermi.

Ce n’era una che spiegava in che modo a Syuna, il pesce di scoglio,

fosse venuta la testa piatta.

Qualche chilometro a est di Lanushwaia c’è un piatto promontorio

di ciottoli, seguito, ancora un po’ più a est, da una scoscesa costa 

rocciosa interrotta qua e là da insenature riparate, ideali per le

canoe.

Il migliore di questi piccoli porti è quello di Wujyasima (acqua sul-

la soglia), che un tempo era il sito preferito dagli yahgan per pianta-

re le loro capanne.

 

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Una volta una ragazza si allontanò dal suo focolare a Wujyasima

e arrivò a piedi fino al promontorio di ciottoli, dove cominciò a

giocare, inseguendo le onde di risacca che si ritiravano dalla spiag-

gia e correndo indietro quando arrivavano i frangenti. 

Un vecchio leone marino la osservava non visto, con sguardo anelan-

te; e quando una grande onda la fece cadere, la fanciulla si trovò

distesa per terra con l’animale di fianco.

Come tutte le donne yahgan la giovane era un’ottima nuotatrice e

cercò quindi di sfuggirgli, ma il leone marino, mettendosi tra lei e

la spiaggia e costringendola ad allontanarsi sempre più verso il

largo, alla fine riuscì a spossarla e la ragazza fu ben lieta di posa-

re la mano sul collo dell’animale. Adesso che la sua vita dipende-

va da lui, la ragazza cominciò a provare simpatia per la sua strana

scorta.

Nuotarono insieme per molte miglia fino a quando raggiunsero

una grande rupe, dove c’era una grotta. Lei sapeva che non sareb-

be mai riuscita a nuotare fino a casa senza aiuto, perciò decise di

accettare l’inevitabile e andò a vivere con il leone marino nella grot-

ta. L’animale procurava all’amata pesce in abbondanza, che la giova-

ne, non disponendo di fuoco, mangiava crudo.

 

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Passò il tempo e nacque un figlio.

Per quanto avesse la forma di un bimbo umano, era tutto coperto

di peli, come una foca. Il bambino crebbe alla svelta e fu di grande

compagnia per la madre, soprattutto dopo che ebbe imparato a par-

lare. Questo il leone marino non fu mai in grado di farlo, ma la ragaz-

za se ne innamorò comunque sempre di più, perché era gentile e

premuroso.

 

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Ciò non toglie che provasse un intenso desiderio di rivedere la

sua terra e i suoi cari.

Riuscì a farlo capire al compagno e un giorno tutti e tre presero

il mare diretti a Wujyasima. A tratti mamma e figlio nuotavano di

fianco al loro protettore; in altri momenti si facevano trascinare tra

le onde a gran velocità; e altre volte ancora gli salivano sul dorso.

Alla fine raggiunsero il promontorio di ciottoli.

Il leone marino si trascinò sulla spiaggia e si distese a scaldarsi al

sole, mentre la mamma, tenendo per mano il suo strano figliolet-

to, si incamminò verso Wujyasima. Al villaggio trovò molti parenti,

che da tempo l’avevano data per morta. Colmi di meraviglia ascol-

tarono la sua storia e grande interesse suscitò in loro quel buffo fi- 

glio ibrido.

 

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Passata l’eccitazione per l’incontro inatteso, le donne del villaggio

dissero che dovevano scendere in canoa lungo le coste rocciose più

a est, per cercare molluschi d’acqua profonda e ricci di mare, che ave-

vano le dimensioni e la forma di mele schiacciate, con i duri gusci rico-

perti di setole rigide come chiodi.

La giovane madre andò con loro, mentre gli uomini e i bambini resta-

rono all’insediamento. I bambini si misero a giocare e il piccolo visita-

tore si unì a loro con entusiasmo.

Gli uomini, però, desideravano mangiare carne e uno di loro, sapendo

che c’era una foca sulla spiaggia, disse:

Perché ce ne restiamo qui tenendoci la nostra fame?

Presero perciò gli arpioni e, avvicinatisi furtivamente al vecchio

leone marino, lo uccisero. Carichi di carne, tornarono al villaggio e

cominciarono a cucinarsi il pasto. I bambini sentirono il delizioso

odore della carne e si raccolsero attorno al fuoco.

Quando furono distribuite le razioni, il giovane visitatore ricevet-

te la sua parte come gli altri. La assaggiò e gridò con gioia:

Amma sum undupa! (E’ carne di leone marino).

Quindi, mentre ancora mangiava, corse verso la madre, che proprio

in quel momento stava ritornando. Le donne avevano accostato le

canoe a una roccia scoscesa che con l’alta marea serviva da pontile

ed erano scese a terra con i loro canestri pieni di ricci di mare.

I piccino corse dalla mamma e le offrì l’ultimo boccone, dicendo

che era saporito.

In un lampo la mamma capì che cos’era successo. Afferrò dal canestro

un grosso riccio di mare e lo scagliò sulla fronte del bambino, che cad-

de nell’acqua profonda, trasformandosi all’istante nel syuma, il pesce di

scoglio, e si allontanò nuotando.

Le altre donne arrivarono alle capanne e si rallegrarono alla vista della

carne di foca arrostita, ma la madre rifiutò di mangiarne e pianse da so-

la il figlio perduto e il suo vecchio e generoso compagno.

Non si maritò più con nessuno della sua gente.

Se esaminate un syuna vedrete che la sua testa è piatta e ricoperta dai

forellini lasciati dagli aculei del riccio di mare, a riprova inconfutabile

della veredicità del racconto.

(E. Lucas Bridges, Ultimo confine del mondo)

 

 

 

 

 

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