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Da
L’unico suono americano alla loro altezza era la tromba di Louis
Armstrong, ma per il coraggio che sapeva opporre alla disperazione,
il canto dei detenuti texani non aveva eguali.
I prigionieri neri guardavano la morte in faccia tutti i giorni, soffrivano
umiliazioni di gran lunga peggiori della morte, eppure avevano creato
canzoni di forza ineguagliabile, capaci di mantenere vivi i loro cuori.
A quei tempi avevo 17 anni e il loro coraggio mi era sembrato quasi
ultraterreno. Ancor oggi, a distanza di molti anni, la mia opinione non
è mutata.
Questi sono i ribelli del Sud, pensavo, i ‘cattivi’, quelli che si sono
rifiutati di essere miti e di soggiacere a un destino avverso sorridendo
pazientemente. Hanno deciso di combattere un sistema legislativo
organizzato per favorire un solo gruppo di persone, che a loro offre,
invece, molte umiliazioni e nessuna protezione: per questo si scagliano
contro di esso a testa bassa.
Gli atti violenti di questi assassini, stupratori, rapinatori, sono gesti
individuali di protesta contro la durezza e le privazioni della vita
dei neri nei ghetti del Sud. Le guardie li trattano come se fossero
rivoluzionari, non delinquenti.
Sì, pensavo, queste guardie dai lineamenti di pietra, che mi sorridono
ipocritamente perché sono sicure che, essendo bianco, ne condivida
i pregiudizi, se potessero leggere nel mio cuore mi tratterebbero
come un prigioniero ribelle.
Perciò camuffai i miei sentimenti.
Non potevo discuterne neppure con mio padre che, malgrado
provasse un’intensa compassione per i prigionieri e un reale interes-
se per la qualità della vita dei neri, tutto sommato era convinto della
complessiva bontà del sistema vigente al Sud. In effetti a quel tempo
erano ben pochi i bianchi del Sud, e non molti gli americani che la
pensavano in modo diverso.
Le registrazioni effettuate in quel pomeriggio nella prigione di stato
nel Texas servirono probabilmente a indebolire i pregiudizi esistenti
e certamente cambiarono le nostre vite, spingendoci alla ricerca
di canti di lavoro in tutti i penitenziari del Sud.
I volti dei prigionieri, così ombrosi e servili quando erano a riposo,
così infuocati e intensi durante il canto, le melodie toccanti e possenti,
le voci preziose e piene di grazia: tutto cospirava per conquistare il
nostro impegno.
Nel corso degli anni successivi ci recammo in doloroso pellegrinaggio
presso tutte le colonie penali del Sud, una serie di succursali dell’infer-
no che costellavano il territorio per rammentare a tutti i neri del Sud,
come le croci incendiate, che se avessero osato ribellarsi avrebbero
trovato catene, guardie armate e morte.
Imparammo a conoscere il cibo, il gergo, gli orrori della prigione,
sperimentando sulla nostra pelle il disprezzo delle guardie che, per
l’interesse che nutrivamo verso le canzoni dei detenuti, ci considera-
vano di poco superiori alla ‘feccia nera’. Tornammo molte volte nei
penitenziari del Sud a effettuare registrazioni, mio padre negli anni
trenta, io negli anni quaranta e cinquanta.
Scoprimmo quella che è, a mio giudizio, la più trascinante delle tradi-
zioni canore: un patrimonio afro-americano immortale, creato e ricre-
ato davanti ai nostri occhi da compositori capaci di inondarci il cuore
di melodie avvincenti, di dolci armonie, di poesia arguta e scarna, in
un gioco ritmico collettivo che serviva a proteggerli e a farli più forti.
Rendevamo le orecchie sorde a tutto, tranne che alle loro voci!
(A. Lomax, La terra del Blues)
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