I NUMERI

 

Ignoriamo il numero degli armeni deportati.

Secondo la misione militare in Armenia, guidata dal Generale

di divisione James Harbord, i rapporti ufficiali turchi indicano

i deportati in 1.100.000, ma il documento, redatto nel 920, non

chiarisce che cosa effettivamente fossero questi rapporti ufficiali,

peraltro mai ritrovati.

Una nota britannica relativa alla necessità assistenziale , datata 30

ottobre 918, parla di oltre 1.000.000 di armeni deportati.

Lo storico turco Salahi Sonyel fornisce il dato di 800.000 deportati;

Raymond Kevorkian ragiona a partire da un dato di 870.000

deportati in Siria, Borghos Nubar, capo della delegazione armena

alla Conferenza di pace di Parigi, affermò, nel 918, che il numero dei

deportati oscillava tra i 600.000 e i 700.000.

Nessuno di costoro basa i propri dati su fonti autorevoli.

In una pubblicazione recente, lo storico turco Yusuf Halacoglu si 

richiama a documenti ottomani a sostegno del dato di 438.758..

trasferiti, ma ci sono buone ragioni per interrogarsi sull’attendibilità

di questo dato.

(G. Lewy, Il massacro degli armeni, Einaudi)

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LA FUGA 3

Dovevamo essere nell’ultima settimana di gennaio del

941, dopo circa 40 giorni di marcia, allorché giunse impetuosa

e furibonda dal nord la terza tormenta, che fece finalmente

bloccare nella neve gli automezzi.

Il convoglio aveva ormai percorso oltre 1000 chilometri da     

quando aveva lasciato Irkutsk; e avevamo attraversato due

grandi fiumi: il Vitim e, pochi giorni avanti, la possente Lena,

entrambi coperti di lastroni di ghiaccio, simili a larghe , lisce

strade che si snodassero per il loro lungo corso attraverso

l’immensità della Siberia.

Ci pareva dunque incredibile che gli automezzi potessero mai

cessare di procedere lentamente verso nord.

Con i volti frustati dall’asciutta neve farinosa che il vento faceva

mulinare, soldati e prigionieri lavorarono all’unisono per

disincagliare il primo autocarro; giunse tuttavia il giorno in cui

nessuno sforzo umano servì : la lunga fila di veicoli e di esseri

umani si arrestò disordinatamente.

Durante tutto il viaggio era stato seguito il sistema di affidare

a turno a ogni automezzo il duro compito di guidare la

colonna.

(Slavomir Rawicz, La lunga marcia, Rizzoli)

             

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UNA FUGA 2

da  paginedistoria.myblog.it

                                      

Eppure continuavamo a viaggiare senza sosta.

Altri uomini morirono, i loro nomi vennero cancellati

dagli elenchi, ma il lungo serpente formato dai 60 e più

carri bestiame continuò a divorare innumerevoli chilometri.

L’estensione della Russia produce un senso di vero

sgomento.

Giungemmo all’importante centro siberiano di Novo Sibirsk,

che riconoscemmo, eravamo dunque quasi a tremila chilometri

di distanza dal luogo dal quale eravamo partiti, nei pressi di      

Mosca, e il treno continuava ad avanzare. 

Avevamo percorso oltre 3200 chilometri verso levante,

quasi sempre in linea retta, allorché attraversammo

lentamente Krasnoyarsk e vedemmo il frumento

ammucchiato all’aperto,e prossimo a marcire, come

palesavano i germogli verdi che vi spuntavano in mezzo

 poichè non esistevano né mano d’opera nè mezzi di

trasporto per immagazzinarlo.

Dopo aver proseguito per circa una dozzina di chilometri 

sostammo su un binario dove non avremmo potuto essere visti    

né uditi dalla città.

Una squadra di manovali ( della 101 e di Tyssen ) percorse

accuratamente tutto il treno controllando, doveva trattarsi

di una fra le più attive categorie di operai addetti alle

stazioni, poiché ogni volta che se ne presentava la

possibilità, durante il lungo viaggio essi controllavano

 con energia.

(Slavomir Rawicz, La lunga marcia, Rizzoli)  

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UNA FUGA

Conlusi che il problema postomi dal piccolo bottegaio  

ebreo non poteva essere risolto.

Tedeschi o russi?

Per un polacco della mia posizione non esisteva molta

scelta, nel 1939. Infiniti altri su quel treno avevano creduto,

come me, che combattere contro i nazisti avrebbe potuto

costituire un passaporto verso la clemenza sovietica.

I giorni permeati di tedio e di disagio trascorrevano lenti.                                     

Sonnecchiavamo sprofondati in un tetro avvilimento,

avevamo incubi atroci che non ci abbandonavano

neppure al risveglio, allorché ci rendevamo conto

di trovarci tuttora su quel tragico treno, rintronati

 dall’incessante rimbombare delle ruote.

Parlavamo delle nostre mogli, delle nostre famiglie,qualcuno

 con dovizia di teneri particolari, descriveva i propri figli;

imprecavamo contro i russi, contro Hitler e contro i tedeschi.          

A volte trascorrevamo lunghe ore, addossati gli uni agli altri

per difenderci dal freddo penetrante, senza che nessuno

rompesse il silenzio.

Di tanto in tanto accadeva che restassimo rinchiusi anche per

trentasei ore senza interruzione, e allora gli uomini gemevano

vinti da un senso di abietta impotenza, oppure lanciavamo

roventi maledizioni all’indirizzo degli autori della nostra

degradazione.

(Slavomir Rawicz, La lunga marcia, Rizzoli)

   

     

              
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