Ero a Berlino nell’agosto del 61.
Non c’era ancora
il muro.
Andai a passare
la domenica
‘dall’altra parte’.
Il tempo era
incerto,
ogni tanto uno
scroscio di
pioggia.
Scesi alla
Friedrichstrasse,
dieci minuti di treno.
Accanto a me sedeva un anziano signore dalla giacchetta di alpaga: fumava un sigaro,
aveva voglia di chiacchierare, cercava di rendersi utile:’Vede quello? E’ l’ospedale della
Charité. Lì operava il famoso Sauerbruch, un genio. Aprì la pancia anche a Hitler.
Quell’edificio distrutto era il Reichstag. Rovine, sempre rovine’.
Mi fermai, per dare un’occhiata ai giornali, al caffè del Presse Club.
Nella Berliner Zeitung c’era Togliatti che sorrideva accanto a Granzotto, e un articolo
illustrava la nuova sede de l’Unità. Un opuscolo era dedicato alle conquiste delle donne
cinesi, una rivista spiegava le meraviglie della Bulgaria. Quando chiesi il conto, la
commessa mi pregò di mostrarle il passaporto. Voleva controllare se avevo cambiato la
valuta regolarmente.
Sulla Sprea passavano carichi di sabbia o di carbone. Qualche pescatore buttava la lenza
nell’acqua cupa: sotto un ponte della ferrovia faceva la guardia, col mitra a tracolla, un
milite della Volkpolizei. Pareva un giorno di novembre, l’aria aveva i tremori dell’autunno,
le vetrine dei negozi quasi vuote erano ancora più malinconiche.
‘La mia bottega è chiusa il mercoledì’, avvertiva un cartello, e l’insegna diceva che il
proprietario, non ancora collettivizzato, tagliava barba e capelli dal 1908. ‘La mia bottega’:
che scritta insolita, pensavo, quasi patetica.
Camminavo dalle parti dell’Akademie Platz, le erbacce crescevano sulle gradinate del teatro
di Federico, fumo e stagioni avevano annerito gli antichi muri: brillava appena, tra fregi
dorici, l’oro di qualche parola sconvolta dalle bombe.
Trovai un tassì e dissi di portarmi alla Cancelleria.
Il ‘Bunker’ dove morì Hitler, non c’è più. I russi l’hanno fatto demolire, adesso è diventato
una collinetta, che odora di fieno bagnato, dove è spuntata l’erba medica.
‘Lui se ne è andato’, disse l’autista con confidenza ‘ma per noi non è cambiato gran che.
Sa che cosa si dice? Siamo liberi di fare quello che vogliono. Ma non i può andare avanti.
Mia moglie aveva bisogno di prezzemolo per preparare il brodo, ho attraversato la città,
trenta chilometri, per trovarlo. Sa come chiamano la margarina? Gagarina. E’ gonfia d’acqua:
appena la metti in padella, salta per aria. Una volta o l’altra scappo di là, ma quello che mi
trattiene, è l’idea di finire in un campo profughi: ho due bambini. Trova che la mia automobile
è sfasciata? E’ mia solo per guidarla, appartiene allo Stato. E’, anche lei, reduce della
guerra. Ha vent’anni. Non ci sono ricambi, fa miracoli, poveretta. Senta questa: raccontano
che i russi hanno regalato a Ulbrich una bella macchina, ma senza motore. Tanto, gli hanno
detto, tu vai sempre in discesa. Buona, no?’
Passai un pomeriggio senza emozioni, come un qualunque cittadino della Repubblica
Democratica. Vidi saltellare gli scoiattoli nei viali del Tiergarten, i soldati russi in libera
uscita che si fermavano ad osservare il sonno degli orsi, o il ragazzo che andava a raccogliere,
sui trespoli sparsi un po’ dappertutto, diffidenti e loquaci pappagalli. Anche i militari
sovietici si mescolavano con le famiglie che attendevano il loro turno per ricevere un bicchiere
di birra o una bevanda ingiustamente definita aranciata.
Alla Marx-Engels-Platz era arrivata la carovana del circo Busch: il direttore mi disse con
orgoglio che era il maggiore della Deutsche Demokratisce Republik, erano stati in tournée
anche in Polonia e in Cecoslovacchia, ma gli incassi non bastavano al mantenimento degli
artisti e degli animali.
Finii dalle parti dell’Alexanderplatz, a cercare invano, nei buoi tra le macerie, l’ombra degli
eroi romanzeschi di Doblin. Non c’erano più gli avventurosi straccioni e le birrerie dalle
quali uscivano fumo di sigari e suoni di chitarre e di fisarmoniche, ma solo la composta
tristezza di qualche passante, marito e moglie, coi vestitucci dozzinali, e un bambino,
tra le braccia, addormentato.
Quel paesaggio è profondamente mutato.
Pochi giorni dopo, Ulbricht dava un ordine, e i Vopo piantavano i paletti e alzavano il filo
spinato e le torrette di osservazione, muravano le finestre degli edifici sul confine, bloccavano
ogni uscita.
Se dalla RDT è impossibile uscire, non è semplice neppure entrare.
Ho impiegato quasi un’ora per i controlli di polizia. Bisogna denunciare anche la macchina
fotografica, ed è proibito introdurre giornali. Una guardia, con un aggeggio munito di specchi,
ispeziona perfino il telaio dell’automobile.
Non si sa mai.
‘Sa che cos’è una sardina?’ mi raccontava un loquace autista di Berlino-Est, un brav’uomo esente
da preoccupazioni ideologiche. ‘E’ una balena sopravvisuta al comunismo’. Questa l’aveva
messa in giro, dicono i teatranti, niente meno che Bertolt Brecht. Chiede il capo cellula:
‘Compagno Meier, perché non ti abbiamo visto all’ultima riunione?’. ‘Non sapevo che fosse
l’ultima,’ spiega Meier, ‘altrimenti ci sarei stato sicuramente’.
L’ironia delle storielle colpisce certi aspetti della vita quotidiana e del carattere dell’uomo
germanico, sia di qua o di là dal muro, si esercita su passioni costanti, come, ad esempio,
l’ossequio per l’autorità.
C’è un signore che in un giorno caldo d’estate, il cielo sgombro di nuvole, non tira una bava
di vento, va in giro con cappotto e ombrello, e si giustifica:’La radio ha annunciato che a
Mosca piove e fa freddo’.
Ancora: tre cronisti, un russo, un cinese e un tedesco si trovano attorno a un tavolo per
discutere. A un tratto il sovietico si sente pizzicare da UNA CIMICE, la prende e la butta via, il
cinese, irritato ma riflessivo, la infila nell’orlo della tunica:’Può sempre servire’; il tedesco
obbediente, la lascia fare: ‘SE C’E’ VUOL DIRE CHE IL PARTITO E’ DACCORDO,
E IL PARTITO HA SEMPRE RAGIONE….’
(Enzo Biagi, Germania)
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