LA CATASTROFE (15)

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la-catastrofe-14.html

Il Pequod ha intrapreso uno di quei viaggi che l’umanità è chiamata

periodicamente ad affrontare, cioè il viaggio in mare aperto, verso l’ignoto,

perché sulla rassicurante terraferma è sorto qualche problema.

Ecco il Pequod è salpato; come succede sempre in questo genere di viaggi,

però, l’umanità si rende conto che, riflessa sull’acqua, c’è soltanto l’immagine

di ciò che ha portato con sé dalla terraferma. Quando il Pequod salpa fiero e

spavaldo, trasporta già qualcosa nella cabina del capitano, cioè nel cuore della

nave: Achab il paranoico, un esemplare autentico della sua società.

Achab guiderà la nave verso un’inevitabile distruzione, e chi avrebbe il compito

di difendere la società non è assolutamente in grado di farlo.

Melville si è impegnato molto a dimostrare che la rivolta non è la risposta

alla domanda posta dal romanzo. Non appena la narrazione gliene dà la

possibilità, racconta un caso di ammutinamento a bordo di un’altra nave.

Melville, da artista quale è, si è addentrato ulteriormente nell’analisi degli

esiti cui l’umanità inevitabilmente giunge, indicando con eccezionale

profondità filosofica quali siano, e dove vadano ricercati, gli elementi

necessari a una riorganizzazione generale della società. Per farlo ha

raggiunto livelli prodigiosi di sottigliezza nella descrizione dell’equipaggio

e di audacia nella creazione dei ramponieri. Tutto ciò rimane tuttavia

subordinato al tema principale, di come la società del libero individualismo

possa dare origine al totalitarismo, rivelandosi in seguito incapace di

difendersi da quest’ultimo.

Il tema di Melville è quindi il totalitarismo, la sua ascesa e la sua caduta,

la sua forza e i suoi punti deboli. Molto prima che Moby Dick distrugga

definitivamente Achab, il capitano lascia già trapelare le fatali debolezze

della rotta che ha intrapreso. I primi segni di cedimento si vedono nel

rapporto con Fedallah e con Pip.

Ben pochi dittatori lasciano che il loro potere, sebbene consolidato, dipenda

interamente da un esercito e da una polizia regolari, da normali forme di

protezione del potere. Il più delle volte istituiscono una forza speciale che

sia fedele soltanto a loro, formata da uomini totalmente estranei alla popolazione

civile, per i quali vita, sostentamento e ideali dipendono in tutto e per

tutto da dittatore stesso.

Achab dispone di una forza simile (che a suo piacimento manovra come la

nave su cui naviga…o vorrebbe navigare…): ha nascosto a bordo una ciurma

di indigeni noti per la loro crudeltà.

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A capo di questi individui sta Fedallah, un Parsi che adora il fuoco come la violenza,

un essere orribile al quale è rimasto un solo dente e che porta i capelli bianchi avvolti

attorno alla testa come un turbante. I tanti Fedallah di Achab sono ovunque rintracciabili,

monitorabili, ed evidenti, là dove corrono gli interessi della maniacale impresa del

capitano.

E’ uno di quegli individui che si possono ancora incontrare nell’estremo Oriente,

o in un bar del centro cittadino, apparentemente sopravvisuti all’epoca lontana

in cui l’uomo si chiedeva ancora il perché del sole e della luna.

Questa rappresentanza del male, o meglio la pantomima del male stesso,

incarnata da Fedallah, pone in modo molto chiaro la questione del rapporto tra il

lettore e la creazione dello scrittore.

Nessuno riesce a capire cosa SIA DI PRECISO FEDALLAH, O MEGLIO, QUALE

PENSIERO OVUNQUE ESSO SIA, IN RAPPRESENTANZA DI ACHAB, MANIFESTI.

Lo stesso Melville, se avesse tentato di analizzarlo e di spiegarlo, molto

probabilmente avrebbe fatto confusione e abbandonato l’impresa (forse è appunto

la confusione in ultima analisi lo scopo dell’anarchico Achab….).

La forza dell’autore non sta nell’analisi ma nella creazione.

Eppure Fedallah è straordinariamente intenso, perfettamente logico e coerente.

E’ un personaggio vivo: proveremmo dunque a spiegare quale significato riveste

per noi.

La realtà del totalitarismo è estranea alla maggioranza degli uomini moderni, al

loro ambiente di lavoro, alla dimensione sociale in cui vivono, al modo in cui

concepiscono la loro individualità e il bisogno di esprimersi liberamente. Quindi

il potere totalitario deve trovare, forgiare e educare una specie particolare di

esseri umani che siano psicologicamente primitivi, aborigeni, con la terribile

aggravante però, che questi individui hanno a disposizione le armi e la

scienza moderne.

(C.L.R. James, Marinai, rinnegati e reietti)

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LA CATASTROFE (14)

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la-caccia-13.html

La scena ambientata all’impianto di raffinazione segna il punto di

svolta. Seguono subito dopo le operazioni di stivaggio e di pulizia, e

di lì ha inizio il rapido declino che porterà alla catastrofe finale. Da questo

momento in poi, vedremo i personaggi e i gruppi di cui siamo venuti a

conoscenza, grazie ad un costante monitoraggio, rivelare, strato dopo

strato, quanto di più profondo si cela nella loro interiorità.

Il primo è Achab (vi è un Achab in ogni ruolo preordinato di una

società precostituita ed asservita, da un bidello ad un generale…).

Ormai dedica tutto il tempo a prepararsi; comunque se è vero che l’ascesa

del totalitarismo segue una sua logica, altrettanto implacabile è la logica

del suo crollo.

Achab è fin dall’inizio un maestro nella scienza della caccia alla balena, e

tale resta fino alla fine (un cacciatore…e basta); tuttavia restringe il concetto

stesso di scienza fino a farlo coincidere semplicemente con ciò che serve al

suo scopo.

Ogni altra forma di scienza, Achab la distruggerà.

Un giorno, dopo aver calcolato come al solito le coordinate osservando il

sole e il quadrante (del suo cellulare o altro…), prende il nuovo strumento

tecnologico in mano e, in preda a una rabbia improvvisa, lo scaglia a terra

e lo calpesta, gridando: Scienza! Maledetto, o giocattolo vano!

La spiegazione di questo gesto indica che questa è una delle analisi più profonde

che Melville abbia mai fatto circa la natura del totalitarismo.

Il quadrante, dice Achab, è in grado di dire dov’è il sole. Ma non è in grado di

dire all’uomo quello che vuole sapere, e cioè dove si troverà domani (in sostanza

può prevedere dove…ma non è in grado di approfondire la vera natura).

Lo strumento invita ad alzare gli occhi verso il sole enorme e maestoso. Ma per

l’uomo tale gesto è rovinoso, poiché gli è dato soltanto di vivere tenendo gli

occhi a livello dell’orizzonte terreno.

– Così ti calpesto, vile oggetto, che nella tua debolezza miri all’alto: così t’infrango

e ti distruggo!

Qui si spiega come il totalitarismo imponga alle masse dei suoi seguaci una

spietata limitazione delle aspirazioni sociali (…gli esempi sono ovunque).

Occorre assicurarsi che costoro mantengano lo sguardo fisso alla linea dell’

orizzonte fino a raggiungere tale scopo.

La sera stessa si scatena la tempesta, gli alberi della nave si incendiano e

Achab sfida il fuoco dell’industria: così, da un giorno all’altro, l’Industria

e la Scienza, divinità gemelle del diciannovesimo secolo, vengono detronizzate.

Per portare avanti la sua impresa, Achab sente il forte bisogno di farla finita

una volta per tutte con tutti gli uomini che pensano.

Ecco che cosa dice al maestro d’ascia:

– Ordinerò un uomo completo secondo un modello desiderabile.

Anzitutto alto cinquanta piedi; poi, modellato come la Galleria del Tamigi; poi,

gambe con radici, per starsene fermo; poi, braccia con tre piedi di polso; niente

cuore, fronte di bronzo e un quarto di iugero di buon cervello; e vediamo,

ordinerò occhi perché veda all’esterno? No, ma metterete un osteriggio in

cima alla testa per illuminare l’interno.

(C.L.R. James, Marinai, rinnegati e reietti)

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LA CACCIA (13)

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la-caccia-12.html

A causa della sua immensa mole e della quantità di olio che poteva

esserne estratto (un eseplare grande poteva darne persino 3000 galloni,

cioè 12.000 litri circa) la balenottera azzurra fu dapprima il bersaglio

principale dei norvegesi nel Mare delle Balene.

I norvegesi si dedicarono alla caccia di questi cetacei con tale ferocia e

competenza che ancora nel 1905 la loro flotta fu in grado di massacrare

265 balenottere azzurre in un’unica stagione, ma nel 1908 una flotta ben

più consistente poté trovarne e ucciderne solo 36. Sotto tutti i punti di

vista, la balenottera azzurra si era commercialmente estinta nel Mare delle

Balene a quell’epoca; così i norvegesi cominciarono a dare la caccia alla

balenottera comune e a ciò che restava della megattera nodosa.

E’ a Millais che dobbiamo la seguente significativa descrizione della caccia

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dei norvegesi alla megattera nodosa:

Le balene manifestano un insolito attaccamento ai piccoli. Li assistono e tentano di difenderli

se sono gravemente ferite. Quest’effetto è contraccambiato dal piccolo… Il comandante Neilson

si trovava a caccia nella baia di Hermitage quando incontrò un’enorme megattera nodosa

femmina con il suo piccolo. Una volta ‘agganciata’ la madre, vedendo che era esausta, il

comandante diede l’ordine di calare la barca per fiocinare l’animale. Ma quando la barca si

avvicinò alla balena ferita, il piccolo continuò a muoversi intorno al corpo della madre

frapponendosi tra la barca e la preda. Tutte le volte che il primo ufficiale tentava di mettere

in azione la fiocina, il piccolo interveniva tenendo a bada per oltre mezz’ora il ramponiere,

rivolgendo la coda verso la barca e sbattendola furiosamente sull’acqua quando questa si

avvicinava. Alla fine, la barca dovette essere rihiamata per evitare un incidente.

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Un nuovo arpione venne sparato contro la madre, che morì.

Il fedele piccolo si adagiò a questo punto a fianco del corpo della madre morta dove

venne colpito in malo modo dalle fiocine, ma non ucciso. Data la posizione nella

quale si trovava, fu impossibile ucciderlo, per cui un’arpione gli fu sparato contro.

Le grandi balenottere scomparvero dalle acque di Terranova (non già per

rifugiarsi in qualche lontano santuario, come pretendono certi apologisti per

giustificare l’assenza degli animali) per finire nei calderoni, nelle pentole a

pressione e nelle attrezzature per la conversione in farina di pesce dell’industria

della caccia alla balena.

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Lo scoppio della prima guerra mondiale diede un po’ di sollievo, mentre gli

uomini concentravano le loro energie distruttive gli uni contro gli altri. A quell’

epoca, le grandi balenottere dell’Atlantico nordoccidentale avevano proprio un

disperato bisogno di tregua. Dall’inizio dell’offensiva norvegese nel 1898, più

di 1700 balenottere azzurre, 6000 balenottere comuni e 1200 megattere nodose

erano state ‘raccolte’ nel Mare delle Balene. Questi numeri, bisogna tenerlo

presente, rappresentano solo le balene consegnate agli stabilimenti di lavorazione.

Essi non tengono conto delle balene mortalmente ferite, dei piccoli morti di

fame dopo l’uccisione della madre e neppure delle balenottere che perirono

in seguito alle ferite infette.

Se insisto su questo punto, lo faccio perché sembra che le balene siano singolarmente

indifese nei confronti dei batteri e dei virus. Pare che non dispongano di un

sistema immunitario di protezione. Ciò costituisce un fattore di mortalità

raramente menzionato nelle discussioni sulla caccia alle balene e di solito

ignorato nelle statistiche ufficiali che registrano i danni inflitti dalle baleniere.

I balenieri, invece, si sono sempre resi ben conto del fattore ‘infezione’ e se ne

sono serviti a proprio vantaggio sin dai tempi remoti.

Già nel IX secolo gli abitanti dei fiordi norvegesi attiravano branchi di balenottere

minori nelle insenature più profonde dei loro lunghissimi fiordi, impedendone

poi la fuga con le reti. Gli animali intrappolati venivano attaccati non con

giavellotti o lance ma con proiettili sparati da balestre, proiettili specialissimi

che erano stati di proposito intinti in botti piene di carne in putrefazione.

Gli organismi ‘inoculati’ in tale maniera nella balena erano così virulenti che la

balenottera infetta moriva in tre o quattro giorni, con il corpo ridotto a un’

unica massa di tessuti in preda alla cancrena e alla setticemia.

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La carne delle carogne era naturalmente priva di valore, ma il grasso restava

incontaminato e veniva estratto per produrre olio da lucerna, pece d’olio e

altri prodotti simili. Le balenottere boreali venivano ancora uccise in alcuni

fordi nei pressi di Bergen con lo stesso barbaro metodo fino all’inizio del

nostro secolo.

Verso il 1908, dopo aver sterminato le grandi balenottere su entrambi i versanti

del Nord Atlantico, sciami di battelli-killer norvegesi scesero oltre l’equatore nell’

Atlantico meridionale. Da qui si diffusero ben presto nel Pacifico e poi nell’

oceano Indiano. Alle loro spalle sorsero stabilimenti costieri e si diffuse come

un miasma il puzzo della ‘megamorte’. Il massacro delle balene dei mari tropicali

temperati assunse proporzioni senza precedenti: comportò la virtuale eliminazione

in pochi anni delle balene nere australi, delle tribù finora indenni di megattere e

l’estinzione quasi completa delle balene grigie nel Pacifico settentrionale.

Ma non era abbastanza.

L’industria norvegese della caccia alla balena diventava una specie di moderno

Moloch dall’appetito insaziabile. Ed era rimasto ancora un grande oceano da

sconvolgere. La flotta dei Killer si spinse ancora più a sud finché non trovò,

al largo dell’estrema punta dell’America meridionale, una tale quantità di

balene quale non si era più vista sin da quando i primi baschi si erano spinti

nel Mare delle Balene quattro secoli prima.

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Nel 1912, 62 baleniere d’assalto salparono dalle basi sulle Falkland e sulle

Orcadi australi, spazzando le acque circostanti con tale rapacità da consegnare

nell’estate di quell’anno agli stabilimenti per la lavorazione oltre 20.000

carcasse di balene. Circa l’80% di queste era costituito da animali della

specie meattera nodosa, il resto da un misto di balene franche, balenottere

azzurre e balenottere comuni. Poiché le balene erano presenti con incredibile

abbondanza, i singoli balenieri potevano ucciderne con facilità decine e più

in una sola giornata. E siccome potevano farlo, spesso lo facevano. Una

baleniera salpata dalle Falkland uccise 37 balene tra l’alba e il tramonto.

Le carcasse vennero munite di opportune bandierine e lasciate andare alla

deriva per essere recuperate quando il battello, finito il massacro della

giornata, fosse pronto a ritornare allo stabilimento. Venivano recuperate se

si riusciva ancora a trovarle. Troppo spesso si perdevano nel buio o nella

nebbia, o erano portate via dal vento e dalle correnti. Se prendiamo in

considerazione le perdite dovute a questo solo motivo, insieme alla mortalità

abituale delle balene ferite e dei piccoli rimasti orfani, le vere dimensioni del

massacro cominciano a scuotere davvero la fantasia.

La lavorazione delle carcasse era improntata agli stessi criteri di spreco dell’uccisione

degli animali. Siccome le carcasse erano tante, gli uomini tagliavano via solo

gli strati di grasso più spessi della schiena e del ventre, come racconta Ommaney:

Le carogne venivano lasciate andare alla deriva nel porto. Le carcasse finivano prima o poi

all’asciutto per decomporsi sulla costa, e ancora oggi l’insenatura di Deception Harbour

nelle Shetland australi e molte baie e insenature dell’isola Georgia del Sud circondate da

banchi di ossa, crani, vertebre e costole sbiancati, un momento alla rapacità della specie

umana.

Il puzzo aleggiante nell’atmosfera di questi porti era leggendario.

Ma il direttore di uno stabilimento americano per la lavorazione delle balene

proclamò non tanto tempo fa:

E chi se ne frega? Quello è il puzzo dei soldi, e per me è un buonissimo odore.

(F. Mowat, Mar dei massacri)

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LA CACCIA (12)

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Con il passare degli anni, le barche assassine diventarono più grandi,

più veloci e più micidiali sotto tutti i punti di vista. Alcune di esse

acquistarono la capacità di allontanarsi per 400 miglia sulla terraferma

per raggiungere, uccidere e rimorchiare in porto persino una decina delle

balenottere più grandi e più veloci.

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Il terzo elemento del tridente consisteva in un tubo mettalico che veniva

conficcato nei polmoni o nella cavità addominale della balena morta dopo

che questa era stata riportata in superficie. Attraverso questo tubo venivano

fatti entrare nella balena aria compressa o vapore, per gonfiare la carcassa e

farla rimanere in superficie durante il rimorchio fino allo stabilimento per la

lavorazione.

Armati delle invenzioni di Foyn, i norvegesi cominciarono a costruire quella

che il linguaggio commerciale chiama con tanta ammirazione ‘la moderna

industria della caccia alla balena’.

Un suo estimatore racconta:

Svend Foyn cominciò a operare su scala industriale sulla costa della provincia di

Finnmark in Norvegia nel 1880. Il suo successo, immediato, fu sfruttato da una folla

di balenieri, ognuno dei quali arrivava a uccidere anche cinque o sei balenottere in un

solo giorno, spopolando in tal modo rapidamente le acque nordiche frequentate dai

cetacei. L’industria si rivelò comunque così redditizia che i coraggiosi norvegesi, avendo

trovato un’occupazione che andava loro proprio a genio, si misero a cercare ‘campi e

pascoli nuovi.

Tra il 1880 e il 1905, i norvegesi sottoposero a lavorazione quasi 60.000 balene

del Nord Atlantico, cioè balenottere azzurre e megattere in maggioranza.

Quanti cetacei abbiano in realtà ucciso in quei 25 anni si può solo arguire, ma

tenendo presente il rapporto tra le perdite effettive e gli animali tratti a riva,

abituale per quei tempi, una cifra di 80.000 pecca probabilmente per difetto.

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Nel 1897, la Cabot Whaling Company venne ufficialmente registrata a Saint

John’s di Terranova: si trattò di un micidiale connubbio dell’avarizia dei mercanti

locali con l’abilità predatoria dei norvegesi. Una base costiera dal nome poetico

di Balaena venne costruita nella baia di Hermitage e cominciò a operare nel 1898

con un’unico ‘battello assassino’.

L’imbarcazione portò a terra in quella prima stagione 47 grandi balenottere.

Durante l’anno successivo ne rimorchiò a terra 59. Nel 1900, la preda complessiva

ammontava a 111 esemplari. Nel 1901, alla prima imbarcazione si aggiunse un

secondo ‘cacciabalene’, e i due battelli procurarono 472 balene agli squartatori

della base. Nel 1903, quattro battelli-killer operavano da Balaena, e portarono a

terra 850 grandi balenottere tra balenottere azzurre, balenottere comuni e megattere

nodose. Intorno al 1905, ben 12 stabilimenti di proprietà mista fra norvegesi e

gente di Terranova erano impegnati nel macello che assumeva sempre maggiori

proporzioni. Intorno al 1911, 26 stavano operando o avevano operato nel golfo

del San Lorenzo e lungo la costa dell’Atlantico, dal Labrador meridionale fino

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alla Nuova Scozia. Nell’agosto del 1905, l’inglese J.M. Millais, naturalista, artista

e sportivo per autodefinizione, inviato dalla Saint Laurence Whaling Company a

visitare uno stabilimento della società sulla penisola Burin di Terranova, CI

OFFRE L’UNICO RESOCONTO CONTEMPORANEO SULLA BALENOTTERA

AZZURRA VIVA NEGLI APPRODI ORIENTALI DELL’AMERICA:

Si distingue dalle altre balenottere per le dimensioni maggiori e il colore più intenso.

Tutta la parte superiore è di una vivace tinta blu-zinco, l’inferiore di un grigio blu.

Nei mesi di marzo e aprile, un gran numero di quei mammiferi si avvicina allo sbocco

meridionale del golfo del San Lorenzo, tenendosi immediatamente fuori dai ghiacci della

deriva. Qui, la massa principale si separa in due tronconi. Uno si raduna per risalire nell’

estuario (del San Lrenzo) quando la coltre di ghiaccio comincia a rompersi, l’altro punta

a est lungo la costa meridionale di Terranova.

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La balenottera azzurra viaggia, quando cerca il cibo, a circa 80 nodi, ma quando è spaventata

in migrazione o colpita da un arpione, può raggiungere i 20 nodi, una velocità che è

capace di mantenere per un lungo periodo. Quando si avventura, per nutrirsi, su un branco

di krill, nuota su un fianco, drizza una pinna e la agita con moti improvvisi, così da

raggiungere la massima velocità; nello stesso istante la bocca si apre e si richiude

lentamente, inghiottendo una quantità di gamberetti pari a quella contenuta in circa 20

barili. Quando la bocca si chiude, l’acqua viene espulsa e si può vederla uscire sotto

forma di getti ai lati della balenottera, mentre il cibo rimane attaccato alla parte interna

de fanoni per essere poi inghiottita lentamente.

Tutte le balenottere si nutrono in questa maniera. Ho visto una grande balenottera

comune girare intorno al piroscafo, intenta a ingurgitare grandi boccate con evidente

soddisfazione. A noi non fece caso. Sembrava che non esistessimo per lei. Anzi era un

miracolo che non colpisse il battello con l’enorme muso.

La balenottera azzurra rimane in genere sott’acqua, durante la grande immersione

verso il fondo, dai dieci ai venti minuti, come ho potuto controllare con l’orologio.

Quando raggiunge la superficie, ‘sfiatata’, emettendo un getto d’aria e vapor che

si alza fino a otto-dieci metri. Poi emerge per breve tempo da otto a dodici volte,

un’operazione che le costa quattro minuti….E durante questo periodo, mentre la

balena fa queste brevi immersioni ed emersioni, che la balaniera a vapore si

avvicina a tutta velocità per tentare di colpirla. Colpita dall’arpione e dilaniata

dalla carica esplosiva, la grande balenottera azzurra spesso si immerge subito e

finisce in fondo al mare.

Spesso si allontana a grande velocità per ricomparire in superficie e morire dopo

una breve agonia. Talvolta, comunque, quando la balenottera è stata colpita troppo

indietro, oppure in prossimità o sotto la spina dorsale, la caccia si prolunga molto,

anche per ore, e si fa difficile.

In linea di massima, la balenottera azzurra è un animale abbastanza avvicinabile.

Così pure non è considerato pericoloso se si osservano le comuni precauzioni.

Vale dalle cento alle centocinquanta sterline.

Le balenottere azzurre possiedono una forza e una capacità di resistenza superiori a

quelle di qualsiasi altra balena. I balenieri che la cacciavano hanno fatto parecchie

esperienze senz’altro eccezionali durante quest’attività. L’impresa di caccia più

notevole e più lunga di cui si abbia notizia fu quella del pirocafo Puma nel 1903.

Quelli del Puma avvistarono e colpirono una grande balenottera azzurra in un

punto distante sei miglia da Placentia, alle nove del mattino. L’animale reagì

immediatamente con estrema violenza, al punto che a bordo si accorsero di non

potersi avvicinare abbastanza per colpirlo con un altro arpione, mentre riaffiorava

per sfiatare con forza. Per tutta la giornata, il cetaceo continuò a rimorchiare il

piroscafo che aveva le macchine ‘indietro mezza’, alla velocità di 6 nodi.

Verso sera venne attaccata alla poppa dell’imbarcazione un’altra fune, di rinforzo

a quella originale, ora ‘fuori’ per un miglio.

Poi il piroscafo invertì la rotta mettendo le macchine ‘avanti tutta’. La manovra parve

indispettire la balenottera che mise in azione tutte le sue forze e trascinò tutta la parte

poppiera della nave, allagando l’alloggio posteriore e una parte della sala macchine.

Ogni ulteriore pericolo venne sventato tagliando immediatamente con un’accetta la

fune attaccata a poppavia. Per tutta la notte, la coraggiosa balenottera continuò a

trascinare con tutto il peso morto di 3000 metri di fune e con le macchine impegnate

‘indietro mezza’.

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Alle nove del mattino successivo, il MOSTRO sembrava sempre fresco e arzillo, ma verso

le dieci del mattino, le forze parvero venirgli meno, e alle undici ricomparve in superficie,

inerte. Alle dodici e mezzo venne finalmente fiocinato dal comandante. Il grande scontro

si era protratto per 28 ore, e la balenottera aveva trascinato il piroscafo a una distanza di

30 miglia fino al capo Saint Mary.

(F. Mowat, Mar dei massacri)

un sito

www.seashepherd.org

Da lazzari.myblog.it

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AVVENTURE DELLA DOMENICA POMERIGGIO: UNA GRANDE NAVE SFIDA IL TEMPO (4)

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A quel tempo i marinai erano abituati a effettuare le riparazioni in mare,

e tutti i velieri avevano vele e pennoni di rispetto; la riparazione delle

attrezzature, poi, era una faccenda quotidiana. Ma era raro che si perdesse

il timone. In una simile evenienza, la maggior parte dei capitani si sarebbe

trascinata in qualche modo in un porto convenientemente attrezzato.

Favorevole a questa soluzione, Robert Willis, fratello dell’armatore,

ordinò a Moodie di dirigersi verso il più vicino porto sudafricano.

I due uomini si scambiarono parole grosse, ma alla fine Moodie fece

di testa propria.

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Messa la nave alla cappa, cominciò subito i lavori di riparazione, e poiché

ebbe la fortuna di trovare a bordo un modellino del ‘Cutty Sark’ che gli

permise di calcolare le misure del timone, poté ordinare al carpentiere

di ricavarlo dalle grosse tavole che servivano per i pennoni di rispetto.

Le tavole furono poi collegate con la ferramenta fuse dal fabbro dai

sostegni delle tende di riparo. Per quattro interi giorni il ‘Cutty Sark’

rollò e beccheggiò senza pace mentre il nuovo timone veniva approntato.

A un certo punto avvenne un pauroso incidente: un’immensa ondata

spazzò il ponte e rovesciò la forgia insieme con il fabbro e il suo

apprendista, il giovane figlio di Moodie, Alexander, che in quel momento

era intento ad azionare il mantice. Il fabbro ebbe la barba bruciata da

una barra di ferro al calor rosso e Alexander portò sul petto per tutta

la vita le cicatrici delle ustioni provocate dalle braci. Ma, per nulla

scoraggiato, l’equipaggio al gran completo si rimise al lavoro di buona

lena. Fece eccezione soltanto Robert Willis, che continuò a passeggiare

sul casseretto coprendo il capitano di furiosi improperi.

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Alla fine il ‘Cutty Sark’ fu in grado di riprendere la rotta; il valoroso clipper

doppiò il capo di Buona Speranza e raggiunse Londra il 18 ottobre, 122

giorni dopo aver sbarcato il pilota a Shanghai.

Il ‘Thermopylae’ era arrivato una settimana prima, ma il ‘Cutty Sark’ aveva

percorso 8000 miglia con un timone di fortuna nell’incredibile tempo di 60

giorni, appena poco di più di un qualunque veliero normalmente attrezzato.

Per alcuni, la prodezza di fabbricare e installare un timone in condizioni

atmosferiche contrarie fece passare in secondo piano perfino la competizione.

In ogni caso, da un giorno all’altro il ‘Cutty Sark’ era diventato un eroe nazionale.

Al termine del viaggio, Moodie, esasperato dalle ingiurie di Robert Willis lasciò

il comando. Old Jock fece di tutto per convincerlo a restare, arrivando perfino a

promettergli di non far mai più salire a bordo suo fratello. Ma Moodie fu inflessibile,

e mentre Old Jock gridava che aveva la testa dura come un mulo, andò a comandare

un vapore per una compagnia di Glasgow.

Old Jock aveva parecchi motivi per rimpiangere Moodie. I capitani che cedevano alla

lusinga del vapore ormai erano sempre più numerosi, perché i viaggi erano più

rapidi e le paghe più alte. Trovare buoni comandanti diventava difficile, e si può

dire che quelli che si alternarono sul ‘Cutty Sark’ nei dieci anni successivi

rappresentarono tutti i tipi possibili.

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Il primo fu Francis Willis Moore, ex direttore dei cantieri di Willis.

Moore aveva cinquant’anni e non poteva certo dirsi un tipo duro; inoltre, dato il

suo precedente mestiere, aborriva dal vedere le navi sottoposte a sforzi eccessivi.

Egli rifiutò quindi di spiegare sul ‘Cutty Sark’ tutta la velatura e sotto la sua mano

riluttante impiegò un tempo considerato eccessivo: 110 giorni nel viaggio da Londra

a Shanghai, e 117 nel ritorno.

Willis pensò bene di sostituirlo immediatamente con William Edward Triptaft, che

aveva comandato altre navi della sua flotta. Il ‘Cutty Sark’ continuò a non battere

primati né a vincere regate, ma cominciò a dimostrare di rendere di più con il

vento teso che con brezze deboli, e registrò più di una volta i 15 nodi: nelle mani

di un buon marinaio, il clipper era in grado di tenere ottime velocità.

Ma Tiptaft morì nel 1878 a Shanghai di un attacco di cuore, e Willis si dovette

mettere nuovamente in cerca di un altro capitano.

(A. Whipple, I Clipper, a cura dei redattori delle edizioni Time-Life)

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LA CACCIA (11)

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Lo spettacolo della lancia spaccata pareva renderla pazza, come il sangue di

uva e more sparso davanti agli elefanti di Antioco, nel libro dei Maccabei.

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Intanto Achab, quasi asfissiato in mezzo alla spuma prodotta dall’insolente

coda della balena e troppo storpio per nuotare, sebbene potesse ancora

tenersi a galla anche nel cuore di un vortice come quello, il misero Achab

mostrava il capo come una bolla scossa, che il minimo colpo casuale possa

far scoppiare. Dal frammento poppiero della lancia, Fedallah lo guardava

con tranquillità e noncuranza; l’equipaggio aggrappato all’altra estremità

galleggiante, non poteva soccorrerlo, gli bastava ampiamente badare a se

stesso. Poiché l’aspetto della Balena Bianca era un tal rivoltarsi di terrore,

e tanto rapidi, come pianeti, erano i cerchi sempre più stretti da essa

prodotti, che pareva piombare dritta su di loro. E quantunque le altre lance,

incolumi, fossero tutte vicine, non osavano spingersi dentro il vortice a

colpire, per tema che quello potesse essere il segnale dell’istantanea

distruzione dei naufraghi in pericolo, Achab e tutti gli altri; né d’altra parte,

in quel caso, esse stesse avrebbero avuto speranza di scampare. Aguzzando

la vista, quindi, rimasero sull’orlo esterno della zona terribile, il cui centro era

ora divenuta la testa del vecchio.

Intanto, tutto ciò era stato seguito fin dall’inizio, sulle teste d’albero della nave

che, bracciando i pennoni, era calata sul luogo della scena, ormai vicina che

Achab, dall’acqua, le urlò:”Fate vela sulla….”.

Ma in quel momento un rangente mosso da Moby Dick si riversò su di lui e

lo sommerse. Ma dibattendosi fino a uscirne, e trovandosi sollevato su una

cresta torreggiante, tuonò:

“FATE  VELA  SULLA BALENA!…CACCIATELA VIA!”

(Melville, Moby Dick)

Un ricordo sincero all’amico Enzo Baldoni…

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VIAGGI IN ALTRI MONDI: IL JAZZ (Gerry Mulligan) (7)

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Il disco, che costò all’editore ben 50.000 dollari, non valse tuttavia a riportarlo

sulla cresta dell’onda, come era nelle sue speranze, e non lo aiutò molto neppure

la sua, pur abbastanza intensa, attività svolta dopo di allora alla testa di complessi

di medie dimensioni: sestetti o ottetti, per lo più.

“Se non hai un gruppo fisso, che suoni tutte le sere, la gente e i produttori di

dischi non si accorgono neppure che esisti”.

Si lamenta Mulligan, “quanto a quel disco, ‘The Age of Steam’, lo sbaglio della

A & M è stato di presentarlo come un album jazz. Ma allora erano tutti pieni

di ottimismo a proposito di una resurrezione del jazz”.

E aggiunge con un po’ di amarezza:”Del resto io non ho mai saputo far bene i

miei affari”.

Prescindendo da qualche incisione con Dave Brubeck, sono dovuti passare più

di tre anni prima che il sassofonista si assumesse nuovamente la capacità e

paternità – sia pure condivisa con un altro – di un microsolco. Per inciderlo,

nell’autunno del 1974 venne addirittura a Milano, dove si incontrò col compositore

argentino Astor Piazzolla – che aveva conosciuo, e subito apprezzato, attraverso

dei dischi – per registrare con lui una serie di tanghi, in gran parte composti e

tutti orchestrati dallo stesso Piazzolla: musiche sontuose e molto originali,

a cui Mulligan aggiunse una lieve coloritura jazzistica.

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E forse altre cose importanti accadranno per lui nel prossimo futuro: la voglia

di fare non gli manca di sicuro.

Il bilancio del suo apporto al mondo del jazz, tuttavia, si può già fare, ed

è molto positivo. Benché si tratti di un eccellente e personalissimo strumentista –

è certamente il miglior baritonsassofonista che il jazz abbia espresso, assieme

a Harry Carney -, merita considerazione soprattutto come compositore e

arrangiatore, come capo di complessi di grandi o piccole dimensioni e più in

generale come musicista: un musicista che riesce a far prevalere le proprie

concezioni anche nelle partiture commissionate da altri.

Forse anche per questo i numerosi bei temi scritti da lui sono rimasti quasi

esclusivamente nel repertorio dei suoi complessi. Di alcuni dei più conosciuti

si è già fatto cenno. Se ne possono aggiungere altri, eseguiti infinite volte

dai suoi complessi e registrati quasi tutti in più versioni: ‘Bweebida Bobbida’,

‘Westwood walk’, ‘Turnstile’, ‘Motel’, ‘Utter chaos’, ‘A ballad’, ‘Demanton’, e

il più recente ‘Unfinished woman’.

Non esistono praticamente suoi figli spirituali fra i baritonsassofonisti, ma

non sono mancati coloro che si sono rifatti alle sue concezioni orchestrali e

più in generale musicali. gran parte del jazz bianco prodotto verso la metà

degli anni 50, infatti, fu fortemente influenzato dalla musica dei suoi primi

complessi: il cosiddetto ‘West Coast jazz’ sarebbe stato probabilmente molto

diverso se Mulligan non avesse affascinato, col quartetto e con le incisioni del

‘tentette’ per la Capitol, gli ex alunni di Stan Kenton da poco insediatisi a Los

Angeles.

(A. Polillo, Jazz)

vedi anche

mulligan

Da pietroautier.myblog.it

www.giulianolazzari.com

giulianolazzari.myblog.it

lazzari.myblog.it

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IL RACCONTO DELLA BALENA: MAR DEI MASSACRI (10)

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I capodogli degli approdi nordorientali erano quasi distrutti, e

anche le balenottere erano così ridotte di numero che gli americani

non avevano più alcuna convenienza a continuare a cacciare nelle

‘acque settentrionali’.

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Intorno al 1820, il massacro registrò una parziale sosta, una sosta

dovuta solo al fatto che la ‘qualità migliore’ delle balene era stata

sterminata o ridotta a pochi esemplari, mentre, d’altra parte, i balenieri

non avevano ancora scoperto il sistema per infliggere lo stesso destino al

grosso delle balenottere che continuava a scorrazzare nei mari in quantità

prodigiose. La sosta si protrasse per circa cinquant’anni durante i quali si

ebbe nel Mare delle Balene solo un’attività di caccia relativamente ridotta,

diretta contro le balenottere. Una di queste operazioni venne effettuata da

una società di Jersey nella baia di Hermitage sulla costa meridionale di

Terranova. I balenieri della socieà ammazzavano ogni anno dalle 40 alle

60 balenottere, uccise con l’aiuto di baleniere equipaggiate con un nuovo

orrore: la fiocina-bomba di Greener. Si trattava di una bomba applicata all’

estremità di un’asta metallica che veniva sparata da una canna senza rigatura.

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Alla fiocina esplosiva non era attaccata alcuna sagola perché, in linea di

massima la fiocina esplosiva doveva essere usata solo per dare il colpo di

grazia alla balena già arponiata. I balenieri, invece, se ne servivano come

arma principale contro le balenottere sperando di ucciderne così un numero

sufficiente per recuperare poi una redditizia percentuale dopo il ritorno a

galla delle carcasse gonfie.

Se nelle baie simili a fiordi come quella di Hermitage, il recupero era alquanto

più facile che non al largo di una costa priva di insenature, ciò non toglie

che i balenieri di Jersey probabilmente condannassero a morte due o tre

balenottere per ogni animale morto recuperato. Benché la megattera nodosa

continuasse a soffrire, il resto delle balenottere rimase fuori portata delle

capacità di caccia umane fin quasi alla fine dell’Ottocento, quando i più

spietati e astuti predoni del mare di tutti i tempi non escogitarono finalmente

i mezzi per sterminare non solo le balenottere ma anche tutti i grandi

cetacei superstiti in tutti i mari della Terra.

Il nuovo massacro fu avviato da un genio delle arti distruttive, un NORVEGESE

chiamato Svend Foyn, che dedicò in maniera quasi fanatica ogni sforzo

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mentale, per dieci lunghi anni, alla scoperta e al perfezionamento di un

sistema per uccidere e recuperare le balenottere. Nel primo decennio

della seconda metà del secolo scorso, quest’uomo trovò la sua triplice

risposta al problema delle balenottere. La quintessenza del suo sistema

consisteva in un cannone da una tonnellata che sparava un massiccio

arpione facendolo penetrare profondamente nel corpo della balena.

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Poi, una granata dirompente, inserita nell’estrimità dell’arpione,

esplodeva dilaniando le viscere della vittima con acuminati spezzoni.

L’esplosione provocava inoltre il raddrizzamento a scatto di aculei d’

acciaio applicati lungo il gambo dell’arpione che andavano ad ancorarsi

profondamente alle carni della vittima. L’arpione era collegato con una

sagola alla baleniera. L’effetto di questo diabolico congegno sulla balena

viva è descritto molto bene da F.D. Ommanney, un cetologo che accompagnò

molto più tardi una spedizione nell’Antartide per cacciare balene.

“La nostra preda salì in superficie, dopo essere stata arpionata, a una distanza

di circa 500 metri e cominciò a soffrire gli spasimi dell’agonia. Se le balene

potessero lanciare grida capaci di straziare il cuore, la loro morte sarebbe

meno terribile di questa battaglia persa in partenza nella quale era adesso

impegnata la nostra balena in un silenzio rotto solo dalle lontane grida degli

uccelli marini. Non udimmo nemmeno il gorgoglio della schiuma rossa

mentre l’animale si contorceva impennandosi e scomparendo sott’acqua,

mentre ogni tanto fiotti di sangue tingevano di rosso l’acqua….

La lotta ebbe fine, la schiuma rossa si dileguò e così potemmo vedere il corpo

completamente immobile. Al di sopra e tutt’intorno, gli uccelli si agitavano

con grida stridule”.

Il secondo dente del micidiale tridente di Foyn consisteva in un piccolo e

veloce battello a vapore, estremamente manovrabile e provvisto di una

prua rafforzata sulla quale era montato il cannone. L’imbarcazione era

provvista inoltre di un argano a vapore alquanto potente e di un sistem di

pulegge a molla che consentiva ai balenieri di seguire la balena arpionata,

come fanno i pescatori sportivi con il salmone, e di far risalire in superficie

persino una balena di cento tonnelate da una profondità di due miglia.

In origine, questi battelli venivano chiamati ‘whale killers’, ma oggi sono

conosciuti come catchers, ‘cacciabalene’, per rispettare la sensibilità dell’

opinione pubblica. I primi battelli di questo tipo erano appena tanto veloci

da poter inseguire con successo una balenottera incrociante, ma a quel

tempo questo bastava perché le balene non avevano ancora imparato a

fuggire davanti agli spietati inseguitori.

(F.Mowat, Mar dei massacri)

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LA CACCIA (riprende…) (9)

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(Colgo l’occasione, per un saluto caloroso, al Capitano Achab e alla

sua ciurma di fieri ….ubriaconi…, una dedica affettuosa a loro e alla

allegra e stimata Compagnia della ditta….., o meglio di tutte le Ditte

dove vi è un ‘Achab’ a guidarle, è una ciurma di reietti ad obbedire,

ed un albero maestro dove cogliere il suo doblone….di bronzo….)

….Ma la caccia prosegue….

Questi galleggiarono via, con le estremità spezzate nell’acqua, e

l’equipaggio, nel relitto a poppa, attaccato ai parabordi, che cercava

di tenersi stretto ai remi per legarli di traverso.

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Nel momento precedente, prima che la lancia venisse spezzata, Achab,

che fu il primo a intuire l’intento della balena dal suo astuto sollevare

la testa, movimento che ne sciolse la presa per un momento, proprio

allora aveva fatto con la mano uno sforzo finale per spingere la lancia

fuori dalla morsa. Ma scivolando invece di più tra le fauci della balena

e inclinandosi di fianco mentre scivolava, la lancia aveva travolto la sua

presa sulla mandibola, l’aveva rovesciato fuori mentre si piegava per

dare la spinta, e così Achab cadde in mare a faccia in giù.

Ritraendosi dalla preda, tra un ribollimento di spuma, Moby Dick ora

stette poco distante, spingendo verticalmente il BIANCO capo oblungo

su e giù nei flutti, e contemporaneamente, rivoltando adagio tutto il

corpo affusollato sicché, quando la vasta fronte rugosa si alzò qualcosa

come venti piedi e più fuori dall’acqua, le ondate che ora si sollevavano,

insieme con tutte le onde confluenti, vi si infransero contro scintillanti,

gettando per vendetta la loro spuma infranta ancora più alta, nell’aria.

Così, nella tempesta, i marisi della Mania a metà sventati indietreggiarono

dalla base dell’Eddystone, soltanto per scavalcare trionfalmente la

sommità, con i loro rovesci.

Ma subito, riassumendo la sua posizione orizzontale, Moby Dick prese

a nuotare tutt’intorno all’equipaggio naufragato, sbattendo l’acqua dai

lati nel solco di vendetta, come se si sferzasse per prepararsi a un altro

e più mortale assalto.

(Melville, Moby Dick)

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IL RACCONTO DELLA BALENA: MAR DEI MASSACRI (8)

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il-racconto-della-balena-quando-e-perche-7.html

La megattera nodosa, che può raggiungere un peso di 60 tonnellate

e una lunghezza di oltre 15 metri, è munita di due ampie pinne anteriori

assai flessibili, usate per mantenere l’assetto e per la propulsione, oltre che

come braccia con le quali le coppie in amore si abbracciano con entusiasmo

e si accarezzano.

Non si sposta con il solito impeto delle altre balenottere e procede normalmente

a una comoda velocità di 5 o 6 nodi, benché possa raggiungere anche i 10 o 12

nodi. La forma ondeggiante, la velocità ridotta, la socievolezza, l’affabilità e la

preferenza per le acque, nell’entroterra, oltre al fatto che, a differenza dei

consanguinei, galleggi talvolta da morta, fecero credere ai primi balenieri che

fosse una balena franca più che una balenottera.

Sembra che i balenieri della Nuova Inghilterra salpando da New Bedford siano

stati i primi ad arrivare alla conclusione che la megattera nodosa poteva essere

sfruttata commercialmente. Già intorno al 1740, questi uomini stavano navigando

a bordo di piccole golette nelle acque di Terranova dando la caccia alle balene

franche nere, a quelle grigie, boreali e ai capodogli, ma le balene franche nere e

grigie diventavano sempre più scarse, la balena boreale non frequentava per

niente quella zona in estate e il capodoglio si trovava in quantità redditizie al

largo. Quelli della Nuova Inghilterra dovevano sentirsi frustrati, o, meglio inviperiti

per il fatto di vedersi circondati da innumerevoli balenottere dalle quali non

potevano trarre alcun profitto. Probabilmente non sapremo mai chi fu il

comandante di baleniera tanto deciso a cavarne un profitto il quale giunse alla

conclusione che almeno un esemplare della ‘qualità inferiore’ poteva costituire

un’eccezione. Fatto sta, comunque, che verso il 1750 tutta la flotta di baleniere

dava la caccia alla megattera nodosa quando non c’era di meglio.

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Davano la caccia a questo cetaceo nonostante il fatto che d’estate, una volta

ucciso, andasse a fondo.

I mezzi navali di quei tempi non erano muniti di dispositivi meccanici capaci di

riportare in superficie carcasse così massiccie, né di mezzi per tenerle a galla mentre

venivano rimorchiate a riva o trattenute sulle fiancate dalla baleniera per essere fatte

a pezzi. I balenieri di New Bedford si servivano della stessa balena uccisa per tenerla

a galla a un fenomeno che chiamarono ‘gonfiaggio’.

Quando una balena di grandi dimensioni muore, la sua temperatura corporea comincia

rapidamente a salire, non a scendere come uno si spetterebbe. Ciò accade perché il calore

prodotto dalla decomposizione rimane imprigionato nel corpo isolato dal grasso, che

diventa così una specie di pentola a pressione. Dopo due o tre giorni, i tessuti interni

cominciano effettivamente a bollire e la putrefazione finisce per generare ben presto una

quantità di gas sufficiente per far galleggiare persino una balena di cento tonnellate

andata a fondo e a farla risalire come un sommergibile in emersione. Le carcasse

puzzolenti non rimangono a galla indefinitivamente. Prima o poi i tessuti si squarciano

così esplosiva da lanciare tutt’intorno pezzi di carne putrefatta come tante palle di

molli shrapnel. Ciò che rimane va di nuovo a fondo, questa volta per sempre.

I balenieri della Nuova Inghilterra affrontavano raramente la megattera nodosa con

arpioni attaccati a funi, preferendo colpire con fiocine lunghe dai tre metri ai quattro.

Talvolta, i soli colpi di fiocina bastavano per                  moby3.jpg

ferire mortalmente l’animale; se questo non

bastava, le infezioni pensavano al resto.

Dopo essere sfuggita ai propri tormentatori,

la balenottera cominciava a star male e

moriva, andando a fondo, cominciava ad

andare in putrefazione, ma poi, il

‘gonfiaggio’ la faceva risalire a galla

dove restava preda, alla deriva, del vento

e della marea.

I balenieri si aspettavano di individuare le balenottere ‘gonfie’, e non importava se fossero

stati loro a ucciderle o qualche compagno.

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Bastava recuperarne un numero sufficiente per ripagare dal punto di vista economico

le loro fatiche. Una megattera recuperata su ogni tre colpite dalle fiocine era considerata,

a quanto pare, un rapporto soddisfacente. Era un lavoro condizionato da sprchi incredibili,

ma rendeva. Quando le autorità inglesi vollero stabilire il potenziale di resa delle acque

dove venivano cacciate le balene intorno alla foce dello stretto di Belle Isle pochi anni

dopo l’espulsione dei francesi, scoprirono che la caccia era fiorente.

Nel 1763, stando a una relazione redatta da un ufficiale della marina, l’industria della

pesca della balena lungo la costa del Labrador teneva impegnati 117 tra shooners e

corvette della Nuova Inghilterra, ognuno provvisto di un equipaggio di una dozzina

di uomini; nel 1767, la flotta della baleniera della Nuova Inghilterra, in navigazione

nel golfo del San Lorenzo e lungo le rive del Labrador meridionale, di Terranova e

della Nuova Scozia comprendevano 300 tra corvette e schooners con più di 4000

balenieri come equipaggio. Benché questi dessero la caccia principalmente alle

balene franche nere, ai capodogli e alle balene grigie quando potevano trovarli,

si vedevano tuttavia spesso costretti a ‘pagarsi le spese del viaggio’ con l’olio

estratto dalle balenottere. Fatta eccezione per una breve pausa durante e subito

dopo la Rivoluzione americana, il massacro perpetrato dagli yankees nel Mare

delle Balene assunse proporzioni sempre più vistose fin poco dopo l’inizio dell’

Ottocento. A quell’epoca, le balene grigie, quelle franche e quelle boreali del San

Lorenzo erano praticamente tutte estinte.

(F. Mowat, Mar dei massacri)

un sito www.seashepherd.org

www.giulianolazzari.com

 

 

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