UNA LETTERA

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(Dopo…anni, secoli, millenni di storia, rileggo una delle tante lettere

scritte, e capisco che allora, caro amico, eravamo un Impero, uomini

convinti delle proprie ragioni di grandezza, potenza, immortalità,

infallibilità, poi nella crescita esponenziale dell’uomo, quell’avvicinarsi

alla cosa prima della nostra venuta …non su una terra nuova, ma

bensì su questa terra così imperfetta, mi rende partecipe che non uno,

ma tutti i motivi spirituali e le esigenze dell’anima sono in pericolo,

…ed il cieco ed inutile fondamentalismo e la sua grandezza e brama

di potere, sono come un nuovo Impero; ma comprendere ed unire ad

una pacifica convivenza…, anche se la cosa parrà impossibile, è il sogno

più grande e duraturo di un governante. Se motivi e ragioni di una fede

possono far apparire il sogno impossibile, credo che la capacità di

riconoscere in quelle che più temiamo, connessioni di reciproca unione

e corrispondenza che annullano e mortificano, di conseguenza, le contraddizioni

di ogni cieco ed assoluto fondamentalismo, possano ristabilire e rinvigorire

il filo storico che le deve congiungere ad un unico fine di speranza e salvezza,

tutto il resto è manipolo di fanatici al soldo di chissà chi….

Valorizzare i legami non può che rendere il nostro compito vero, assoluto,

indelebile, e duraturo, motivo ora del vero Impero…della pace, conoscenza,

uguaglianza, fratellanza.

E’ questa la vera guerra, la vera battaglia più dura da combattere, senza armi,

senza violenza, senza odio, senza discriminazione, la guerra più difficile,

più impegnativa, perché nessuna arma è in grado di affrontare senza il

il dono della conoscenza, nemici figli di quelle tenebre, che io e te

combattiamo da sempre. Per il resto grazie per la tua attenzione e

rinnovo la nostalgia per la tua bella e fertile terra.

Proseguo ora il mio racconto, le mie…memorie. Che da esse si possano

imparare i motivi della pace, giammai della discordia…, eravamo come

fanciulli allora. Siamo uomini ora! Un domani…)

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Tutto mi girava attorno in quella sala dove le teste dei buoi selvatici

dei trofei barbari pareva mi ridessero in viso.

Le giare si succedevano; qua e là zampillava un canto avvinazzato, o

il riso lascivo e insolente d’un paggio; l’imperatore, posando sul tavolo una

mano sempre più malferma, murato in un’ebrezza in parte simulata,

sperduto, lontano da tutto, sulle strade dell’Asia, sprofondava gravemente

nelle sue visioni.

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Disgraziatamente, erano visioni piene di bellezza: le stesse che, in altri tempi,

m’avevano fatto pensare di abbandonare qualsiasi cosa per seguire al di là

del Caucaso le vie settentrionali dell’Asia. Quell’incantesimo al quale l’imperatore

ormai vecchio cedeva in uno stato di sonnambulismo, Alessandro l’aveva

subito prima di lui; egli aveva realizzao pressappoco gli stessi sogni, e ne

era morto, a trent’anni. Ma l’insidia peggiore di quei piani grandiosi consisteva

appunto nella loro ragionevolezza: come sempre, abbondavano le ragioni

pratiche per giustificare l’assurdo, per indurre all’impossibile. Da secoli

ci preoccupava il problema dell’Oriente; sembrava naturale risolverlo una

volta per tutte. I nostri scambi di derrate con l’India e con il misterioso

paese della Seta erano interamente alla mercè dei mercanti ebrei e degli

esportatori arabi, i quali godevano la franchigia nei porti e sulle strade dei

Parti. Una volta annientato l’impero vasto e fluttuante dei cavalieri Arsadici,

avremmo avuto contatti diretti con quei ricchi confini del mondo: l’Asia

unificata finalmente, sarebbe stata per Roma nient’altro che una provincia

di più. Il porto di Alessandria d’Egitto era l’unico dei nostri sbocchi verso

l’India che non dipendesse dalla compiacenza dei Parti; anche lì ci

trovammo continuamente in urto con le esigenze e le rivolte delle

comunità ebraiche.

Il successo della spedizione di Traiano ci avrebbe consentito di ignorare

quella città insicura. Ma tutte quelle regioni non m’avevano persuaso

del tutto: mi avrebbe soddisfatto di più qualche abile trattato commerciale

e intravvedevo già la possibilità di ridurre la funzione di Alessandria,

creando una seconda metropoli greca nelle vicinanze del Mar Rosso,

ciò che feci in seguito, quando fondai Antinopoli. L’Asia, quel mondo

tanto complesso, cominciavo ormai a conoscerlo. I piani semplici, di

sterminio totale, che erano riusciti in Dacia, non erano attuabili in

questo paese brulicante di una vita più molteplice, dalle radici più

profonde: da essa dipendeva inoltre la ricchezza del mondo.

Al di là dell’Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei

miraggi, le sabbie ove si affondava, le strade che finiscono senza

metter capo in nessun luogo.

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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UNA COMUNITA’

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…Rinfranchi i suoi passi camminando in modo perfetto

in tutte le vie di Dio come ha ordinato

nel tempo stabilito delle sue testimonianze,

senza distogliersene a destra o a sinistra

e senza trasgredire neppure una di tutte le sue parole.

Allora egli sarà accetto per mezzo di espiazioni gradevoli

davanti a Dio, e ciò varrà per lui qual patto della comunità intera.

Per il saggio affinché istruisca e ammaestri tutti i figli

della luce sulla storia di tutti i figli dell’uomo

su tutti i generi dei loro spiriti con i loro caratteri,

secondo le loro opere, e sulle loro genealogia,

sulla visita nella quale saranno colpiti

e sul tempo della loro retribuzione.

Dal Dio sapientissimo procede tutto ciò

che è e sarà: prima che essi siano

egli stabilisce tutto il loro piano,

ed allorché esistono compiono le loro azioni

in base a quanto è stato per essi determinato

conformemente al piano della sua gloria,

senza alcun mutamento.

Nella sua mano vi sono le norme per tutti

ed è lui che li sostiene in tutti i loro bisogni,

è lui che ha creato l’uomo per il dominio sul mondo;

e ha disposto per lui due spiriti affinché cammini

con essi fino al tempo stabilito della sua visita.

Questi sono gli spiriti della verità

e della ingiustizia.

In una sorgente di luce sono le origini

della verità e da una  fonte di tenebra

le origini dell’ingiustizia.

In mano al principe delle luci è l’impero

su tutti i figli della giustizia:

essi camminano sulle vie della luce.

Ed in mano all’angelo della tenebra

è tutto l’impero sui figli dell’ingiustizia:

essi camminano sulle vie della tenebra.

Dall’angelo della tenebra (derivano) le aberrazioni

di tutti i figli della giustizia,

tutti i loro peccati, le loro iniquità,

la loro colpa, e le loro azioni perverse

sono l’effetto del suo impero in conformità

dei misteri di Dio fino al tempo da lui stabilito;

tutti i loro flagelli e i periodi delle loro avversità

sono sotto l’impero della sua ostilità;

e tutti gli spiriti della sua morte sono intenti

a fare incespicare i figli della luce.

(IQS, III, 13; IV, 26)

 

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LA STORIA… E I SUOI SACCHEGGI

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Mettesse pure le mani sul suo tesoro, quella gente avidissima, e con

quell’oro si saziasse della sua lunga fame, tanto ben presto sarebbe

diventata sua preda: aveva appreso dall’esperienza come un corredo

di raffinatezza, concubine e una processione di eunuchi altro non

fossero che pesi e impacci: trascinandosi dietro quelle stesse cose,

Alessandro sarebbe risultato più debole proprio in quello che era

stato prima il suo punto di forza.

Questo discorso appariva colmo di disperazione a tutti, poiché

vedevano la resa di Babilonia, città imbolo di opulenza: il vincitore

stava per occupare già Susa, già le altre perle del reame, che erano

state causa della guerra.

Ma Dario continuò a spiegare che nelle avversità occorre seguire non

le belle parole, ma le necessità concrete: le guerre si conducono con il

ferro, non con l’oro, con gli uomini, non con gli edifici delle città.

Tutto va dietro chi è in armi: così i suoi antenati, sconfitti nelle vicende

iniziali, avevano ben presto recuperato la primitiva fortuna.

E poi, sia che avesse realmente confortato i loro animi, sia che si

fossero conformati ai suoi comandi più che alle sue argomentazioni,

passò il confine della Media.

Poco dopo Arbela si consegna ad Alessandro, stipata di arredi regali

e di ricchi tesori – per un valore di 4000 talenti -, e inoltre di preziose

vesti, essendo state accumulate in quella località, come si è detto

prima, le risorse dell’intera armata.

Alessandro anticipò quindi la propria partenza sotto la minaccia delle

epidemie, diffuse dai miasmi dei cadaveri abbandonati per tutte le

campagne. Nel loro itinerario si lasciavano sulla sinistra l’Arabia,

paese rinomato per l’abbondanza delle spezie odorose.

Si tratta di un percorso attraverso i campi (della regione) distesa tra

il Tigri e l’Eufrate, tanto feconda e grassa che le greggi si dice vengano

spinte via dalla pastura perché la sazietà non le uccida. Causa di tale

fertilità è l’acqua che proviene da entrambi i fiumi, giacché quasi

tutto il suolo è umido per le vene d’acqua che vi sgorgano.

I due fiumi discendono dalle catene montuose dell’Armenia e, dopo

un’ampia divergenza proseguono il loro corso iniziale: la massima

distanza tra essi, all’altezza dei monti dell’Armenia, è stata calcolata,

da chi ha proceduto alle misurazioni, in 2500 stadi.

Quando cominciano ad attraversare il paese dei Medi e dei Gordiei,

a poco a poco si accostano l’uno all’altro, e quanto più si spingono

oltre, tanto più esiguo è lo spazio che lasciano tra loro.

Sono soprattutto vicini nei campi che gli abitanti chiamano Mesopotamia:

infatti la chiudono in mezzo da entrambi i lati.

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Attraversato infine il territorio babilonese, sfociano nel Mar Rosso.

Alla quarta giornata di marcia, Alessandro arrivò alla città di Mennis.

C’è lì una caverna da cui una fonte emette una massa così grande di

bitume da convalidare l’opinione                         bloodforoil.jpg

che le mura di Babilonia, opera

enorme, siano state spalmate del

bitume di questa scaturigine.

Comunque sia, mentre

Alessandro stava avanzando su

Babilonia, venne a consegnarli sé

stesso e la città, insieme con i figli

e in atto di supplice, Mazeo, che

aveva trovato lì rifugio dal

campo di battaglia.

Al re fu gradito il suo arrivo, giacché l’assedio di una città ben fortificata

avrebbe comportato grande impegno.

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Oltre a ciò, un guerriero illustre e ardito come lui, celebre anche per il

comportamento tenuto nell’ultimo scontro, sembrava che avrebbe potuto

con il suo esempio incitare anche gli altri alla resa.

Perciò lo accoglie benevolmente insieme ai suoi figli; poi fa marciare in

formazione quadrata, come se andassero a combattere, i soldati di cui era

personalmente alla guida. Gran parte dei Babilonesi si era assiepata sui

bastioni avida di conoscere il nuovo sovrano, più ancora gli si erano mossi

incontro.

Tra questi Bagofane, responsabile della cittadella e del tesoro reale, per non

essere vinto in zelo da Mazeo, aveva lastricato l’intero percorso di ghirlande

di fiori e disposto sui due lati altari d’argento, sui quali aveva ammucchiato

non solo incenso, ma ogni genere di balsami. Lo seguivano, in segno di

omaggio, mandrie di bestiame e di cavalli, e, in gabbie, eano trasportati

addirittura leoni e leopardi.

Dei Magi cantavano litanie nel loro modo tradizionale, dopo di essi venivano

dei Caldei e, fra i Babilonesi, non solo i sacerdoti, ma anche i musicisti,

con gli strumenti a corda loro propri: questi ultimi esperti nel tessere

panegirici ai principi, i Caldei nella conoscenza dei movimenti degli

astri e del regolare avvicendarsi delle stagioni.

Per ultimi venivano cavalieri babilonesi, bardati, loro e le cavalcature, più

per ostentazione di lusso che di grandiosità.

Il re, stretto da guardie armate, ordinò alla folla degli abitanti di camminare

dietro le ultime file della fanteria, poi, su un carro, entrò in città nel

palazzo reale.

Il giorno seguente esaminò il corredo di Dario e tutti i suoi tesori.

Furono però la bellezza e l’antichità della città ad attirare su di sé, non

immeritatamente, gli sguardi non solo del re, ma di ognuno. L’aveva fondata

Semiramide, non, come i più hanno ritenuto, Belo, del quale si mostra la

reggia. Il muro di cinta è costruito in mattoni cotti con uno strato di

bitume e comprende in larghezza uno spazio di 32 piedi: si dice che

due quadriglie provenienti da direzioni opposte possano incrociarsi

senza pericolo.

(Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno)

(Qualcuno in silenzio e senza rumore….disse…Sono solo assassini…., forse e

sicuramente non aveva torto.)

 

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VENDIDAD

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Dalle regioni tenebrose, dalle regioni senza stelle

balzò fuori Anra Mainyu, apportatore di morte,

il Daeva dei Daeva.

In questa guisa proruppe colui il quale è sapiente

nel male, Anra Mainyu.

– O Drug, avventati, uccidi Zarathustra! a questo

corse intorno Drug, il daeva, il devastatore, il

malvagio, il mortifero, l’ingannatore.

Zarathustra recitò l’Ahuma vairya: yatha ahu vairyo:

Così il Signore con la santità del pio dono dello spirito

e delle opere del Signore, Mazda largiva fino a lui il regno

di Ahura, ai poveri il vitto; le acque buone venerate del

buono Daitya la benefica legge mazdeana.

La Drug paralizzata scappò via, il daeva Buiti, il mortifero,

il devastatore, l’ingannatore.

La Drug questo rispose:

O Anra Mainyu, fautore di angosce, io non veggo (via)

di morte pel santissimo Zarathustra.

Zarathustra è pieno di splendore, Zarathustra discerne

spiritualmente: I Daeva si precipitano alla mia perdizione;

tristi sapienti nel male (essi) anelano la mia morte.

Zarathustra si rizzò, Zarathustra si fece avanti non colpito

da Akamano.

Pietre in mano egli strinse; della grandezza di un kata son

esse; il pio Zarathustra le ottenne dal creatore Ahura Mazda

perché sostenessero le larghe vie della terra vasta, della terra

rotonda sulla lontana riva della Darejya, nell’alto sito dell’abitazione

di Pourushaspa.

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Zarathustra dichiarò ad Anra Mainyu: o malvagio Anra Mainyu,

sapiente del male – io ucciderò la creazione dei Daeva, io ucciderò

la Nasus, creata dai Daeva, distruggerò la Pairika alla quale si

prostrano (gl’idolatri) finché nascerà il Saoshyant dall’acqua

Kacaoya nel lato d’Oriente, nelle plaghe orientali.

A lui rispose il creatore della cattiva creazione, Anra Mainyu:

– Non distruggere la mia creazione, o pio Zarathustra; figlio

tu sei di Pourushaspa, del materno seno invocato.

Abiura la santa legge mazdeana e acquisterai con ciò la felicità

come con ciò l’acquistò Vadhaghna, signore di territorii.

Questo a lui replicò il Santissimo Zarathustra:

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– No! io non abjuro la santa legge mazdeana, se le ossa, se gli

spiriti vitali, se l’anima non mi abbandonano.

Rispose a ciò il creatore della cattiva creazione, il tristo Anra Mainyu:

– Con quali parole vincerai tu la mia creazione?

– Con quali parole annienterai la mia creazione?

– Con quale arma colpirai tu la mia creazione ben fatta?

– La creazione di Anra Mainyu?

(Vendidad)

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UNA BALLATA

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‘Mandatemi i vostri rassegnati e i vostri poveri

le vostre masse desiderose di respirare libertà

i reietti delle vostre rive affollate

mandetemi costoro, i senza casa, i provati dalle tempeste della vita’.

Benedetti siano i perseguitati

e benedetti siano i puri di cuore.

Benedetti siano i misericordiosi

e benedetti siano coloro che …piangono.

Difficile è il passo che strappa le radici

e fa dire addio alla famiglia e agli amici

i padri e le madri piangono

i bambini non riescono a capire

ma quando c’è una terra promessa

gli audaci partiranno ed altri seguiranno.

La grandezza dello spirito umano

è la volontà di realizzare i nostri sogni

e così le masse attraversarono l’oceano

verso una terra di pace e speranza.

Ma nessuno udì una voce o vide una luce

mentre esausti barcollarono sulla sponda.

E nessuno fu accolto dall’eco della frase

‘Tengo alta la mia lampada presso la porta d’oro’.

Benedetti siano i perseguitati

e benedetti i puri di cuore.

Benedetti siano i misericordiosi

e benedetti siano coloro che piangono.

(le tue falsità!)

(Joan Baez)

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IL SOGNO DI MARIA

(Le due foto sono state eseguite dall’autore del Blog)

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una-lettera.html

Nel grembo umido, scuro del tempio,

l’ombra era fredda, gonfia d’incenso;

l’angelo scese, come ogni sera,

ad insegnarmi una nuova preghiera:

poi, d’improvviso, mi sciolse le mani

e le mie braccia divennero ali,

quando mi chiese – conosci l’estate –

io, per un giorno, per un momento,

corsi a vedere il colore del vento.

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Volammo davvero sopra le case,

oltre i cancelli, gli orti, le strade:

poi scivolammo tra valli fiorite

dove all’ulivo si abbraccia la vite.

Scendemmo là, dove il giorno si perde

a cercarsi da solo nascosto tra il verde,

e lui parlò come quando si prega,

ed alla fine d’ogni preghiera

contava una vertebra della mia schiena.

Le ombre lunghe dei sacerdoti

costrinsero il sogno in un cerchio di voci.

Con le ali di prima pensai di scappare

ma il braccio era nudo e non seppe volare:

poi vidi l’angelo mutarsi in cometa

e i volti severi divennero pietra,

le loro braccia profili di rami,

nei gesti immobili d’un’altra vita,

foglie le mani, spine le dita.

Voci di strada, rumori di gente,

mi rubarono al sogno per ridarmi al presente.

Sbiadì l’immagine, stinse il colore,

ma l’eco lontana di brevi parole

ripeteva d’un angelo la strana preghiera

dove forse era sogno ma sonno non era

– lo chiameranno figlio di Dio -:

parole confuse nella mia mente,

svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.

E la parola ormai sfinita

si sciolse in pianto,

ma la paura delle labbra

si raccolse negli occhi

semichiusi nel gesto

d’una quiete apparente

che si consuma nell’attesa

d’uno sguardo indulgente.

E tu, piano, posasti le dita

all’orlo della sua fronte:

i vecchi quando accarezzano

hanno il timore di far troppo forte.

(Fabrizio de André, Il sogno di Maria, La Buona Novella)

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UNA LETTERA

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frammenti.html

Occupavo da un anno la carica di governatore in Siria, quando Traiano

mi raggiunse ad Antiochia. Veniva a ispezionare gli ultimi preparativi

della spedizione d’Armenia che, nei suoi disegni, preludeva all’attacco

contro i Parti.

L’accompagnavo come sempre Plotina e la nipote Matilda, la mia indulgente

suocera, che da anni lo seguiva al campo in qualità d’intendente. Celso,

Palma, Nigrino, i miei vecchi nemici sedevano ancora nel Consiglio e

dominavano lo Stato maggiore. Tutti costoro si accomodarono alla meglio

nel palazzo in attesa che la campagna avesse inizio; e ripresero, con

rinnovato vigore, gli intrighi di corte. Ciascuno faceva il suo gioco, in

attesa che la guerra gettasse i suoi dadi.

L’esercito mosse quasi subito verso il Nord. E io vidi allontanarsi con esso

la fitta calca di alti funzionari, di ambiziosi, e di inutili.

L’imperatore e il suo seguito fecero a Comagena una sosta di pochi giorni,

in occasione di feste già trionfali; i piccoli re d’Oriente, riuniti a Satala, fecero

a gara per protetargli una lealtà sulla quale al posto di Traiano, non avrei

fatto troppo affidamento per l’avvenire. Lusio Quieto, il mio rivale più

pericoloso, alla testa degli avamposti, nel corso d’una vasta incursione

militare, occupò le sponde del lago di Van; la parte settentrionale della

Mesopotamia, evacuata dai Parti, fu annessa senza difficoltà; Abgar il re

d’Osroene, fece atto di sottomissione a Edessa. L’imperatore tornò ad

Antiochia a occupare i suoi quartieri d’inverno, rinviando a primavera

l’invasione vera e propria dell’impero partico, ma già deciso a non

accettare alcuna proposta di pace. Tutto si era svolto secondo i suoi

piani. La gioia di tuffarsi finalmente in quell’avventura, differita per

tanto tempo, restituiva una nuova giovinezza a quell’uomo di sessanta-

quattro anni.

Le mie previsioni, però, restavano cupe.

L’elemento ebreo e quello arabo erano sempre più ostili alla guerra; i

grandi proprietari delle province si irritavano di dover indennizzare le

spese provocate dal passaggio delle truppe; le città mal tolleravano l’

imposizione di nuovi tributi. Sin dal ritorno dell’imperatore, si verificò

una prima sciagura, preludio di tutte le altre; un terremoto, nel cuore

d’una notte di dicembre, distrusse in pochi istanti quasi una metà di

Antiochia. Traiano, confuso per la caduta d’un trave, continuò eroicamente

a occuparsi dei feriti, e tra le persone più intime attorno a lui vi

furono dei morti. La plebaglia siriana subito andò a caccia dei responsabili

del sinistro: l’imperatore, derogando per una volta dai suoi principi

di tolleranza, commise l’errore di lasciar massacrare un gruppo di

cristiani. Personalmente ho pochissima simpatia verso questa setta,

ma lo spettacolo di quei vecchi frustati con le verghe e dei bambini

torturati contribuì all’inasprimento degli spirti e rese più tetro quel

sinistro inverno (cercai di appellarmi ai mercenari Galli, gli unici in

quel periodo di cui veramente mi fidavo…).

Comunque mancava il danaro per sanare immediatamente gli 

effetti della sciagura: la notte, s’accampavano sulle piazze migliaia di

persone senza tetto. I miei giri di ispezione mi rivelavano l’esistenza

d’un sordo malcontento, d’un odio segreto e insospettato dagli alti

dignitari che imgombravano il palazzo, e con loro le pessime concubine.

E tra quelle rovine, l’imperatore proseguiva i preparativi per la campagna

imminente; fu adoperata una foresta intera per la costruzione di 

ponti mobili per traversare il Tigri……

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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FRAMMENTI

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laudate-hominem.html

Quando, fanciullo che ancora non parla,

vivevo nei palazzi del padre mio

nella ricchezza adagiato

e nelle dolci cure di chi mi nutriva,

dalla terra d’Oriente, mia patria,

provvistomi di quanto necessita

per un lungo cammino

i genitori mi fecero partire.

Mercé la dovizia dei nostri tesori

un fardello riunirono:

era grande e leggero, per le mie giovani spalle.

L’oro proviene dalle contrade di settentrione

e l’argento dalle grandi miniere,

dell’India sono i rubini, di Koshan le agate;

mi armarono di un diamante

cui nulla resiste.

La veste costellata di gemme e di oro trapunta

che per me con amore avevan fatto

e la stola dorata dei giovani anni,

mi furono tolte.

Perché non dimenticassi,

un segno di intesa con me concordarono,

imprimendolo nella mente e nel cuore,

e dissero: se, una volta disceso in Egitto,

di là riporterai la perla, l’unica,

che giace negli inferi,

dal serpente assediata che inghiotte ogni cosa,

di nuovo vestirai la veste ingemmata

e la stola in cui la tua forma riposa:

allora con tuo fratello, che tutto ricorda,

araldo diverrai del nostro regno.

Partii dall’Oriente

per una via accedentata e paurosa

in compagnia di due guide,

inesperto com’ero di ogni cammino.

Passati i confini di Maishan,

ostello dei mercati d’Oriente,

giunsi al paese di Babilonia.

Arrivato alfine in Egitto

le guide che scortato mi avevano

mi abbandonarono,

e io, per la via più breve,

verso il serpente rivolsi i miei passi.

Per sottrargli la perla,

dove aveva la tana sostai,

in attesa che lo cogliesse il sonno notturno.

Rimasto solo, avevo aspetto straniero

e ben visibile era il mio esser-diverso

a chi mi era vicino.

In quella contrada il parente incontrai

delle terre d’Oriente;

libero era, giovane e bello a vedersi

figlio di re.

Mi si fece vicino e lo ebbi sodale,

amico divenne, e del mio còmpito

lo feci partecipe.

Lo persuasi a diffidare degli Egizi,

a non confondersi con quegli uomini impuri.

Ma io le vesti di quelli indossai

per non apparire straniero,

come chi, venuto da fuori,

cospiri per riprendersi la margherita.

Temevo gli Egizi svegliassero

il serpente contro di me.

Non ricordo per quale occasione o motivo

scoprirono che non ero dei loro.

All’inganno congiunsero l’arte

e tanto fecero che del loro cibo gustai.

Così scordai di essere figlio di re

e del loro, schiavo divenni.

Scordai anche la perla

per cui ero stato mandato,

e oppresso dal loro cibo

caddi in un sonno profondo.

(Acta Thomae, Il canto della perla)

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UNA LETTERA

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frammenti.html

(….So della tua solitudine, per cui ti scrivo, vorrei essere nei tuoi

bei luoghi, città, viali, musei…ma il male, un male antico, me lo

impedisce. Per cui ti scrivo. Il fine ultimo, sono convinto, ragione

e motivo di ogni Impero, è prodigarsi per il bene. La tua tradizione,

la tua asprezza, e anche quel sottile malessere di vivere, che ogni

tanto ti (e ci) coglie, non come un’angoscia, ma un qualcosa di incompiuto,

mi portano a ispirarti, a delegarti, per il fine e la nostalgia che mi lega

alla tua terra. I motivi della pace, della fratellanza, e…..dell’uguaglianza,

sono sensibili nel mio animo come un ricordo non del tutto espresso,

come un pensiero non del tutto svelato, come una nostalgia ancora

viva…, ma troppo spesso soffocata da futili motivi….)

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Poco a poco, questa lettera cominciata per informarti dei progressi del

mio male è diventata lo sfogo d’un uomo che non ha più l’energia necessaria

per applicarsi a lungo agli affari dello Stato; la meditazione scritta d’un

malato che dà udienza ai ricordi.

Ora, mi propongo ancor di più: ho concepito il progetto di raccontarti la

mia vita. Certo, l’anno sorso ho steso un resoconto ufficiale dei miei atti,

sul frontespizio del quale Flegone, il mio segretario, ha messo il suo

nome. Ivi, ho mentito il meno possibile. Tuttavia, ragioni di interesse

pubblico e di decoro mi hanno costretto a ritoccare alcuni avvenimenti.

La verità che mi propongo d’esporre qui non è particolarmente scandalosa,

o meglio non lo è se non nella misura in cui non c’è verità che non susciti

scandalo (ma tu sai quanto è difficile per ogni vallo, per ogni fine, porre

la sola ed unica lingua comprensebile: la pace…).

Non m’aspetto che i tuoi anni, pochi o tanti, che siano (l’insegnamento e

l’apprendimento talvolta si confondono reciprocamente), ne capiscano

qualcosa; ci tengo, tuttavia, a istruirti, fors’anche a urtarti. I precettori

che t’ho scelto io stesso ti hanno impartito una educazione severa,

sorvegliata, forse troppo protetta, dalla quale tutto sommato m’aspetto

un gran bene per te e per lo Stato, e non per altri che turbano la quiete

di quei bravi giovani che mi hanno fatto compagnia, con pacifica ed

inattesa ospitalità.

Qui, ti offro, a guisa di correttivo, un racconto scevro di preconcetti e

di astrazioni dall’esperienza d’un uomo, ….me stesso, riflesso in mille

volti differenti.

Ignoro a quali conclusioni mi trascinerà questo racconto.

Conto su questo esame dei fatti per definirmi, forse anche per giudicarmi

o, almeno, per conoscermi meglio prima di ……morire.

Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l’esistenza

umana: lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma

anche il più fecondo; l’osservazione degli uomini, i quali nella maggior

parte dei casi s’adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci

credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che

sorgono tra le righe.

Ho letto, più o meno, tutto quel che è stato scritto dai nostri storici, dai

nostri poeti, persino dai favolisti, nonché dai critici (la specie più rozza

ed..ignorante…), benché i penultimi siano considerati frivoli, e son loro

debitore d’un numero d’informazioni, forse, maggiore di quante ne

abbia raccolte nelle esperienze pur tanto varie della mia stessa vita.

La parola scritta m’ha insegnato ad ascoltare la voce umana, press’a

poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m’hanno

insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini.

Viceversa, con l’andar del tempo, la vita m’ha chiarito i libri.

Ma questi mentono, anche i più sinceri.

Infatti i meneno abili, in mancanza di parole e di frasi nelle quali racchiuderla,

colgono, della vita, un’immagine povera e piatta; altri come Lucano,

l’appesantiscono, l’ammantano di una dignità che non possiede. Altri

ancora, al contrario, come Petronio, l’alleggeriscono, ne fanno una palla

vuota e saltellante, che è facile prendere e lanciare in un universo senza

peso. I poeti ci trasportano in un mondo più vasto, o più bello, più

ardente o più dolce di quello che ci è dato; per ciò appunto, diverso,

e, in pratica, pressoché inabitabile. I filosofi sottopongono la realtà,

per poterla studiare allo stato puro, press’a poco alle stesse trasformazioni

che subiscono i corpi sotto l’azione del fuoco e del macero: di un

essere o di un avvenimento, quali li abbiamo conosciuti noi, pare

non sussista nulla in quei cristalli o in quella cenere. Gli storici ci

propongono una visione sistematica del passato, troppo completa,

una serie di cause ed effetti troppo esatta e nitida per aver mai

potuto esser vera del tutto (ecco perché bisogna cercare con assennata

pazienza le fonti e confrontarle fra loro…con assennata saggezza…),

….ma è quasi ora di cena, con umiltà in segreto ed in silenzio composto

andiamo a mangiare…il nostro umile pasto, poi riprendiamo….

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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FRAMMENTI

Precedente capitolo:

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– E chi è così padre?

– Colui che non chiacchiera molto e ascolta poco, perché chi perde il

suo tempo nel discutere e nell’ascoltare chiacchiere, vibra pugni contro

il vuoto. Infatti Dio, il padre, il bene, non si conoscono né parlandone,

né ascoltandone parlare. Stando così le cose, tutti gli esseri possegono

i sensi, perché non potrebbero esistere senza di essi; ma la conoscenza

differisce molto dalla sensazione. La sensazione si produce in seguito

a qualcosa che fa impressione su di noi, mentre la conoscenza è il

raggiungimento completo della scienza, che è dono di Dio.

Ogni scienza è incorporea, in quanto usa come suo strumento l’intelletto,

che a sua volta si serve del corpo.

Così gli oggetti intelligibili e materiali penetrano ambedue nel corpo.

Infatti tutte le cose risultano necessariamente dall’opposizione e dalla

contraddizione, ed è impossibile che avvenga altrimenti.

– Chi è dunque il dio materiale di cui parli?

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– Il mondo, che è bello, ma non buono, essendo costituito di materia e

soggetto a passioni. E’ il primo di tutti gli esseri passibili; ma il secondo

nella serie degli esseri, ed è incompleto in se stesso, ha avuto anch’esso

un principio nella sua esistenza, ma esiste sempre, perché esiste nel

divenire, costituisce il divenire delle qualità e delle quantità: è infatti

sempre in movimento e ogni movimento della materia è divenire.

L’immobilità intelligibile suscita il movimento della materia in

questo modo: poiché il mondo è una sfera, cioè una testa, tutte le

cose che sono unite alla membrana di questa testa, nella quale si

trova l’anima, sono per natura immortali, e poiché il corpo è stato

fatto per così dire nell’anima, esse hanno maggiore quantità d’anima

che di corpo. Tutte le cose che sono invece lontane dalla membrana,

sono mortali, perché hanno maggiore quantità di corpo che di

anima.

Ogni essere vivente, come l’intero universo, è dunque composto

di materia e d’intelligibile. Il mondo è dunque il primo essere

vivente, mentre l’uomo è il secondo dopo il mondo, ed è il primo

degli esseri mortali: egli possiede insieme agli altri esseri viventi

il principio vitale; e non solamente non è buono, ma è cattivo in

quanto mortale; il cosmo non è buono in quanto è soggetto a

movimento, non è cattivo in quanto è immortale.

L’uomo è cattivo in quanto soggetto al movimento e in quanto

mortale.

(Ermete Trismegisto, Corpo Ermetico)

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