LA VITA NON SI PUO’ DESCRIVERE

 

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Ripresi conoscenza nella mia cella di rigore, attorniato dal

solito quartetto.

– Tu, infame calunniatore ed anche ‘direttore’ di San Quentin,

tu creatura infernale…immonda, ciarlatano….!

dissi in tono di scherno, dopo aver bevuto avidamente l’acqua

che mi era stata offerta. 

– Trionfino pure i carcerieri e i detenuti di fiducia!

Il loro tempo sta per finire. Quando verrà la fine dei tempi, per

essi sarà la fine.

– Gli ha dato di volta il cervello,

disse il direttore Atherton in tono convinto.

– Si sta prendendo gioco di voi,

fu la più ponderata risposta del dottor Jackson.

 

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– E però rifiuta il cibo,

osservò il capobraccio Jamie.

– Mm… potrebbe resistere quaranta giorni senza risentirne,

rispose il dottore.

– Proprio così,

dissi io,

– e anche quaranta notti. Ora per cortesia, stringetemi un po’ di

più la camicia di forza e andatevene.

Il detenuto di fiducia cercò di infilare l’indice nell’allacciatura.

– Anche a tirarla con un verricello,

assicurò

– non si guadagnerebbe neanche un quarto di pollice.

– Hai qualche reclamo da fare, Standing?

chiese il direttore.

 

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– Sì,

risposi

– ho due cose di cui lamentarmi.

– E cioè?

– Primo,

dissi

– questa camicia di forza è allantata in maniera abominevole.

Hutchins è un somaro. Se volesse, la potrebbe stringere di al-

meno un palmo.

– E qual’è l’altra cosa?

– Che siete stato concepito dal diavolo, dal male, Atherton.

Il capobraccio Jamie e il dottor Jackson abbozzarono un sog-

ghigno. Poi il direttore, sbuffando, aprì la marcia e i quattro

uscirono dalla cella.

 

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Ma a questo punto caro lettore, devo interrompere il racconto

e spiegare alcune cose che ti renderanno più agevole la com-

prensione del tutto.

Sono costretto a farlo, perché il tempo che mi resta per comple-

tare la storia di quello che mi è successo quando ero nella camicia

di forza è limitato.

Fra non molto, anzi fra pochissimo tempo, mi condurranno fuori

per impiccarmi. Del resto, anche se potessi disporre di mille vite,

non potrei mai ricostruire nei dettagli quelle esperienze.

 

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Pertanto, debbo accorciare il racconto.

Voglio dire innanzitutto che Bergson ha ragione . La vita non si

può descrivere in termini puramente razionali. 

Come ha detto Confucio tanto tempo fa : ‘Se della vita conosciamo

così poco possiamo sapere della morte ?’.

Proprio così, visto che non riusciamo a descrivere l’esistenza in

termini razionali. La conosciamo fenomenicamente, allo stesso

modo in cui un selvaggio può conoscere una dinamo, ma non

sappiamo nulla della sua essenza noumenica, nulla della natura

ultima della vita.

Ha inoltre torto Marinetti quando sostiene che l’unica realtà, l’uni-

co mistero è la materia. 

Io affermo, e tu, lettore, sai che ho l’autorità per farlo – che la ma-

teria altro non è che illusione.

 

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Comte chiamò il mondo, che è l’equivalente della materia, il

grande feticcio, e io sono d’accordo con lui.

E’ la vita a costruire l’unica realtà e il vero mistero.

La vita è molto di più che semplice materia chimica, che nelle

sue fluttuazioni assume quelle forme elevate che ci sono note. 

La vita persiste, passando come un filo di fuoco attraverso tutte

le forme della materia.

Lo so.

Io sono la vita.

Sono passato per diecimila generazioni, ho vissuto per milioni

di anni, ho posseduto numerosi corpi.

Io, che ho posseduto tali corpi, esisto ancora, sono la vita, sono

la favilla mai spenta che tuttora divampa, colmando di meravi-

glia la faccia del tempo, sempre padrone della mia volontà,

sempre sfogando le mie passioni su quei rozzi grumi di mate-

ria che chiamano corpi ( di silicio…)  e che io ho fuggevolmente

abitato. 

(J.London, Il vagabondo delle stelle, Adelphi ed.)





 

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