EREMITI NELLA TAIGA (il tempo)(16)

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eremiti nella taiga (il tempo)

 

 






I Lykov notarono subito i primi satelliti, non appena furono mandati

in orbita: “Le stelle cominciarono a muoversi in cielo”.

Nella cronaca dei Lykov l’onore di questa scoperta è attribuita ad

Agaf’ja. Mentre le stelle ‘veloci’ in cielo diventavano sempre di più,

Karp Osipovic formulò un’ipotesi, la cui audacia fu subito derisa da

Savin. “Sei fuori di testa. E’ forse concepibile quello che dici?”.

L’ipotesi dell’allora sessantenne Karp Asipovic consisteva in questo,

che ‘gli uomini avessero escogitato qualcosa e scagliassero dei fuo-

chi molto simili alle stelle’. 

 

eremiti nella taiga (il tempo)


Che i ‘fuochi’ non venissero semplicemente lanciati in cielo dagli

uomini, ma che gli uomini stessi vi girassero per il cielo, i Lykov

lo appresero dai geologi, ma risero con condiscendenza: “Non è

vero…”.

Eppure avevano visto gli aeroplani sorvolare la taiga, in alto e

anche relativamente in basso. Ma nei ‘vecchi libri’ per questo c’

era una spiegazione.

“In cielo voleranno uccelli di ferro” lesse Savin.

 

eremiti nella taiga (il tempo)


Laggiù il tempo passava lento.

Mostrando l’orologio chiesi ad Agaf’ja e a Karp Osipovic come

facevano a misurare il tempo.

“E che bisogno c’è di misurare?” disse Karp.

“Estate, autunno, inverno, primavera – ecco qua, l’anno.

E il mese si vede dalla luna.

Ecco guarda, è già calata.

E il giorno è semplicissimo: mattino, mezzogiorno e sera.

L’estate, appena l’ombra del cembro cade sul portavivande, è

mezzogiorno”. 

 

eremiti nella taiga (il tempo)


Tuttavia per i Lykov il computo del Tempo con giorni, settimane,

mesi e anni era della massima importanza! Perdersi nel Tempo,

come riconoscevano distintamente, avrebbe significato sconvolge-

re la suddivisione della loro vita in feste, preghiere, digiuni, giorni

di grasso, anniversari dei santi, il calcolo degli anni della propria

vita.

Il computo del Tempo era osservato nel modo più rigoroso. 

 

eremiti nella taiga (il tempo)


Ogni giorno iniziava con la dichiarazione del giorno della settimana,

del giorno del mese, del mese dell’anno.

Il ‘sacerdote’ addetto al Tempo era Savin.

E se ne occupava in modo impeccabile, senza sbagliarsi.

Savin non faceva incisioni alla maniera di Robinson.  

 

eremiti nella taiga (il tempo)


Aveva una memoria fenomenale come un antico libro; la verifica del

calcolo sulla luna nascente e le immancabili sedute al mattino per

determinare ‘in che giorno viviamo’ erano parte dell’elaborazione

quotidiana del calendario.

Non erano rimasti indietro, non erano andati avanti di un solo giorno

i Lykov nella cronaca della loro vita! Questo aveva stupito i geologi,

che al primo incontro avevano chiesto: “E che giorno è oggi?”.

Questo continua a stupirli, quando incontrano i Lykov.

“Solo una volta” racconta Agaf’ja,

“Savin ebbe paura di essersi sbagliato”.

Fu un giorno di grande paura.

Si misero tutti insieme a contare, collazionare, ricordare, controlla-

re.

Agaf’ja con la sua fresca memoria, riuscì ad agguantare per la 

coda il Tempo che era quasi sfuggito loro di mano.

Agaf’ja ci ha spiegato con evidente piacere l’intero sistema di computo

del passare dei giorni. Ma uomini abituati ai servizi d’informazione,

ai calendari e alle agende, non potrebbero assolutamente capire

quanto per la cara Agaf’ja costituiva un piacere del tutto legittimo.

I giovani Lykov sapevano degli altri uomini dai racconti e dai ricordi

dei loro vecchi. Tutta la sfera di vita cui essi non partecipavano veniva

chiamata ‘mondo’.

“Questo mondo è peccaminoso, pieno di lusinghe, di offese a Dio.

Bisogna nascondersi agli uomini e averne timore”…..

(E come non dargli ragione….)

(V. Peskov, Eremiti nella Taiga)





 

 

eremiti nella taiga (il tempo)

  

UN EREMITA VOLLI DIVENTARE (l’orto, Eremiti nella taiga) (15)

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Da casa dei Lykov portai a Mosca un pezzo di pane.

Lo mostravo agli amici chiedendo cosa fosse, e solo una volta

udii una risposta incerta, ma vicina alla verità: sembrerebbe

pane.

Sì, era il pane dei Lykov.


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Lo facevano con patate triturate al mortaio e ci aggiungevano

due o tre pugni di segale battuta col pestello e alcuni chicchi

sminuzzati di canapa.

Questa mistura, diluita con acqua e senza lievito o fermenti

di alcun genere, viene cotta in padella e ha l’aspetto di una

spessa crepe nera.

‘Questo pane fa senso anche solo a guardarlo, figuriamoci a 

mangiarlo’ disse Erofej.

Eppure lo mangiavano.

Lo mangiano anche adesso – il pane vero non l’hanno assag-

giato nemmeno una volta.


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In tutti questi anni la famiglia è stata nutrita dall’orto – un dolce

declivio sulla montagna ritagliato dalla taiga.  Per assicurarsi

contro gli imprevisti dell’estate montana avevano ricavato un

altro appezzamento più in basso sul fianco della montagna, e

un altro ancora presso il fiume:

– Se di sopra il raccolto va male, raccogliamo qualcosa più in

basso.

Nell’orto coltivavano patate, cipolle, rape, piselli, canapa, se-

gale.


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Quarantasei anni prima, lasciando l’insediamento adesso inghiot-

tito dalla taiga, i semi erano stati portati come un tesoro insieme

al ferro e ai libri liturgici.

Queste colture non li avevano traditi nemmeno una volta nel mez-

zo secolo trascorso da allora – senza mai degenarare avevano forni-

to cibo e materiale per la vita quotidiana. E’ inutile dire che custo-

divano questi semi come la pupilla degli occhi.

La patata, ‘una pianta peccaminosa e diabolica’ che era stata impor-

tata da Pietro il Grande dall’Europa e insieme al ‘tè e tabacco’ era

stata rifiutata dai Vecchi Credenti, per un’ironia della sorte in segui-

to divenne per molti il nutrimento fondamentale. Anche per i Lykov

la patata rappresentava il nutrimento principale.

Laggiù cresceva bene.

Conservavano i tuberi in uno scantinato, ricoperti di ceppi e di cor-

teccia.

Ma ‘di raccolto in raccolto’ le scorte non erano mai sufficienti, come

mostrava la vita. Le nevicate di giugno sulle montagne potevano

avere un effetto devastante e persino catastrofico sull’orto.

Era indispensabile tenere una scorta ‘strategica’ di due anni.


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Senonché anche in una buona cantina le patate non possono

conservarsi per più di due anni.

Impararono a farsi una scorta di patate secche. Le tagliava-

no a rondelline e, nelle giornate calde, le seccavano su gran-

di pezzi di scorza, oppure direttamente sulle tegole del tetto.

In caso di necessità finivano di seccarle al fuoco e sulla stufa.

Anche adesso tutto lo spazio libero nella capanna era occupato

da scatole di scorza con dentro le patate secche.

Le scatole di patate venivano messe anche nei guardavivande –

su alte pertiche. Naturalmente tutto veniva accuratamente nas-

costo e avviluppato in pezzi di corteccia.

Per tutti questi anni i Lykov avevano sempre mangiato le pata-

te con la buccia: spiegavano questo con la necessità di fare eco-

nomia.

Ma ho l’impressione che debbano avere indovinato istintivamen-

te che le patate sono più nutrienti con la buccia.

La rapa, i piselli e la segale servivano da integrazione alimentare,

ma non erano il nutrimento principale. C’erano così pochi cereali

che i giovani Lykov non avevano nessuna idea del pane vero e

proprio. I grani seccati venivano sminuzzati nel mortaio, ne face-

vano una polenta di segale per ‘le sante feste’.


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Un tempo nell’orto cresceva la carota, ma una volta i semi erano

andati perduti a causa di un’incursione di topi. E gli uomini re-

starono così privi di un prodotto tanto indispensabile alla dieta.

Il colorito pallido e malato della pelle dei Lykov, probabilmente,

non si spiega col fatto che stanno al buio, quanto con l’insufficien-

za nel cibo di una sostanza chiamata carotene, e che abbonda nelle

carote, nelle arance e nei pomodori….

Quell’anno i geologi avevano rifornito i Lykov di semi di carato,

Agaf’ja come ghiottoneria ci aveva portato al fuoco due radichet-

te arancio pallido, dicendo con un sorriso:

‘Pata-a-ata’.

(V. Peskov, Eremiti nella Taiga)





 

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NELLA FERTILE TERRA CHE LA STORIA VUOL DIMENTICARE

 nella fertile terra che la storia vuol dimenticare

 

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nella fertile terra che la storia vuol dimenticare

 

 

 

 

 

 

Niente viene trascurato per presentarlo come il più umano degli

uomini, animato da un amore profondo per la gente umile.

Molti scrittori, nazisti e antinazisti, si sono diffusi sul suo affetto

per i bambini, e la stampa nazista è gremita di fotografie che mo-

strano Hitler in compagnia di frugoletti.

Si racconta che, quando soggiona a Berchtesgaden, i bambini del

vicinato gli fanno visita tutti i pomeriggi, e che il dittatore in per-

sona serve caramelle, gelati e torte.

Secondo Phayre, ‘non ci fu mai uno scapolo di mezza età che tan-

to si deliziasse della compagnia dei bambini’.

 

nella fertile terra che la storia vuol dimenticare

 

La principessa Olga racconta (da uno dei suoi soggiorni di monta-

gna) quando si incontrò a Berlino col dittatore, e la conversazione

scivolò sull’argomento dei bambini, gli occhi di Hitler si colmaro-

no di lacrime.

La stampa nazista (e non…) non manca di fare buon uso di questo

atteggiamento, sfornando senza fine aneddoti e fotografie edifican-

ti. In pari misura, sfrutta il suo effetto per gli animali, e particolar-

mente per i cani: anche qui, un fiume di fotografie sta a dimostrar-

lo. Il piatto favorito della propaganda sono la modestia e la sempli-

cità di Hitler.

 

nella fertile terra che la storia vuol dimenticare

 

Uno scrittore giunse al punto di attribuire la sua dieta vegetariana

all’orrore che gli ispirava il pensiero dei poveri animali trucidati

per il piacere degli uomini.

Si parla di Hitler come dell”affabile castellano’, ricco di gentilezza,

cortesia e generosità,o, secondo la versione di Oechsner, del Gran

Confortatore, padre, marito, fratello o figlio per tutti coloro cui

manchi, o che abbiano perduto, il rispettivo congiunto.

Un altro tratto cui la propaganda dedica ampi commenti è la sua

sobrietà. Il potere non gli è mai andato alla testa; al massimo del-

la sua potenza, egli è ancora lo spirito semplice che fondò il parti-

to, e la sua gioia più grande è di venir considerato ‘uno dei ragaz

zi…’ (che escono da scuola, o che vi rientrano….).

 

nella fertile terra che la storia vuol dimenticare

 

Non ha mai tentato di impossessarsi di una corona, non veste 

uniformi sfarzose, non dà ricevimenti mondani. Anche dopo la

conquista del potere, ha continuato a indossare il vecchio cap-

potto a palandrana e un cappello a cencio, la sua uniforme è

ancora quella di un semplice soldato della cavalleria d’assalto.

Si è scritto molto sul piacere che gli procuravano le visite di

vecchi amici, e su quanto volentieri egli interrompesse la sua

giornata laboriosa per rievocare i tempi andati.

Nulla lo entusiasmava di più che frequentare i suoi antichi 

covi, e incontrare i vecchi camerati o partecipare alle loro

feste. Era rimasto nell’animo un umile lavoratore, e i suoi

interessi erano sempre rivolti alle classi lavoratrici, con le

quali si sentiva completamente a suo agio.

Hitler è anche un uomo di incredibile energia e resistenza.

La sua giornata conta da 16 a 18 ore di ininterrotto lavoro.

E’ assolutamente instancabile quando si tratta di prodigar-

si per la Germania e il suo futuro benessere……..

(Langer, Psicanalisi di Hitler)

 

 

 

 

 

 

nella fertile terra che la storia vuol dimenticare

    

E LA STORIA VIDI SFILARE

 e la storia vidi sfilare

 

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e la storia vidi sfilare

 

 

 

 

 



L’aspetto che più ci colpisce di questi detti è la loro continua

insistenza sul fatto che tutto è già aperto alla nostra conoscen-

za. 

Dobbiamo soltanto bussare ed entrare.

La parte più antica e più nobile del nostro essere risponderà

pienamente a ciò che accettiamo di vedere. L’insegnamento

più profondo di questo Gesù gnostico non viene mai afferma-

to direttamente ma resta sempre implicito, in quasi ogni singo-

lo detto:

‘c’è in noi una luce, e questa luce non fa parte del mondo crea-

to. Non è adamitica’.

Conosco soltanto due tesi alle quali la ‘gnosis’ non può rinun-

ciare: la Creazione e la caduta sono state un unico e medesimo

evento; e la parte più nobile del nostro essere non è mai stata

creata e, quindi, non può cadere.

Il Gesù vivente del Vangelo di Tommaso parla a tutti i suoi di-

scepoli, ma nel tredicesimo detto – un detto dalla cruciale impor-

tanza – egli parla soltanto a Tommaso, e le tre parole segrete che

gli dice prendendolo in disparte non ci vengono mai rivelate.

Possiamo solo limitarci ad avanzare delle ipotesi, dato che quel-

le tre parole, dette in disparte costituiscono il cuore segreto del

Vangelo di Tommaso. 

Tommaso si era guadagnato il privilegio di ascoltare queste tre

parole (o detti) affermando di non essere assolutamente in gra-

do di dire a chi fosse simile Gesù. 

Il suo gemello non è simile a un angelo giusto o a un profeta,

e non è simile neppure a un saggio filosofo, un maestro della

sapienza greca. 

Le tre parole, quindi, dovrebbero riguardare la natura di Gesù,

ciò che egli è. La sua natura è tanto luminosa da essere la luce

stessa, ma non la luce del cielo, o di quel cielo che si trova al

di sopra del cielo. 

Va identificato con il Dio estraneo e sconosciuto: non con il 

Dio di Mosé e di Adamo, ma con l’uomo-dio dell’abisso, an-

teriore alla Creazione.

Tuttavia, questa è soltanto una delle tre verità…..

(H. Bloom, La saggezza dei libri) 

 

 

 

 

 

e la storia vidi sfilare

  

DI FRONTE AL MALE

 

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                                                                                                                      di fronte al male

espulsione-e-concentramento.html

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di fronte al male

E TANTO GHIACCIO CON CUI PARLARE (un nome gli debbo dare….)

 e tanto ghiaccio con cui parlare

 

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e tanto ghiaccio con cui parlare

 

 

 

 

 

 

Dalla scarsa statistica apprendiamo che i lavori dei lager erano 

per lo più manuali.

Nel 1919 soltanto il 2,5 % dei detenuti lavorava in laboratori arti-

gianali, nel 1920 il 10 %.

Sappiamo anche che alla fine del 1918 la Sezione punitiva centra-

le svolgeva pratiche per la creazione di colonie agricole.

Sappiamo che a Mosca erano state create alcune squadre di dete-

nuti per la riparazione dell’acquedotto, degli impianti di riscalda-

mento e delle fognature negli edifici nazionalizzati della capitale.

Eppure i lager di lavoro forzato non furono una novità nella Re-

pubblica Federale Socialista Sovietica Russa.

 

e tanto ghiaccio con cui parlare

 

Il lettore ha già avuto modo di leggere più volte verdetti dei tri-

bunali le parole ‘campo di concentramento’ e crede forse che sba-

gliamo, usando erroneamente una terminologia più tarda?

No.

Nell’agosto 1918, qualche giorno prima dell’attentato di Fanny

Kaplan, Vladimir Il’ ic Lenin telegrafava a Evgenija Bos e al Co-

mitato esecutivo di Penza:

‘Rinchiudere i sospetti in un campo di concentramento fuori dal-

la città’.

 

e tanto ghiaccio con cui parlare

 

Il 5 settembre 1918, una decina di giorni dopo questo telegram-

ma, fu promulgato il Decreto del Soviet dei commissari del po-

polo sul Terrore Rosso, firmato da Petrovskij, Kurskij e Bonc-

Bruevic.

Oltre a istruzioni sulle fucilazioni in massa conteneva la seguen-

te frase:

‘Salvaguardare la Repubblica Sovietica dal nemici di classe iso-

lando questi in ‘campi di concentramento’.

….Ecco dunque dove fu trovato e subito adottato il termine di

‘campo di concentramento’ uno dei termini principali del XX

secolo, destinato ad avere un vasto futuro internazionale!

Ecco quando:

nell’agosto e settembre 1918.

La parola stessa era già stata usata durante la prima guerra mon-

diale, ma riferita a prigionieri di guerra e a stranieri indesiderabi-

li. Ora viene applicata per la prima volta a cittadini del proprio

paese.

 

e tanto ghiaccio con cui parlare

 

Il trasferimento del concetto dal campo internazionale al naziona-

le è comprensibile:

‘il campo di concentramento per prigionieri non è una prigione

bensì una lora necessaria concentrazione preventiva’.

Così pure per i connazionali sospetti si propenevano adesso con-

centrazioni preventive extragiudiziali.

Una mente attiva avrà immaginato il filo spinato intorno a uomi-

ni condannati in giudizio (sommario, per lo più senza prove…),

e trovato spontaneamente anche la parola occorrente:

CONCENTRAMENTO!

(A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag)


 

 

 

 

 

e tanto ghiaccio con cui parlare

 

LA VIOLENZA DI QUESTO MARE

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la violenza di questo mare

 

 

 

 

 

 

Il processo della disciplina e della civiltà non ha arginato la

violenza, al contrario, l’ha moltiplicata.

La guerra tecnica ed i genocidi lasciano dietro di sé un pro-

fondo disorientamento.

L’anonima morte di massa ha fatto saltare la fiducia nella so-

pravvivenza pacifica della società. La fede nel progresso è

svanita a partire dalle battaglie materiali della prima guerra

mondiale. Le utopie della pace e gli ideali di comprensione

reciproca sembrano particolarmente inutili, completamente

al di fuori della realtà, al limite consolatori.

E anche le reazioni spontanee di rabbia o di dolore, di colpa

o di vergogna non rappresentano la realtà della violenza.

Le catastrofi di questo secolo non sono vinte né con sentimen-

ti di sdegno, né con teoremi morali o appelli pedagogici.

Di solito la soluzione al disorientamento è la distanza, il dis-

tacco analitico, la chiarezza concettuale. L’atteggiamento me-

todico della diagnosi sociologica offre una buona premessa.

Aiuta a mettere da parte la paura. E’ comunque naturale che

ci siano giudizi di valore. Questo freddo riserbo potrebbe es-

sere considerato scandaloso.

Ma non si dovrebbe scambiare per insensibilità.

Quanto più la portata e l’intensità della violenza ci sconvol-

gono e suscitano resistenze interne, tanto più l’accuratezza

analitica è indispensabile, se si vuol arrivare a capire.

(W. Sofsky, Il paradiso della crudeltà)

 

 

 

 

 

 

 

la violenza di questo mare

 

CON UNA METAFORA UN ALTRO NAUFRAGIO CANTARE (perché non si è mai soli per questo mare)

 con una metafora un altro naufragio cantare

 

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con una metafora un altro naufragio cantare

 

 

 

 

 

 

I marinai foglie di coca digeriscono in coperta

Il capitano ha un amore al collo venuto apposta dall’Inghilterra

Il pasticcere di via Roma sta scendendo le scale

ogni dozzina di gradini trova una mano da pestare 

 

con una metafora un altro naufragio cantare

 

ha una frusta giocattolo sotto l’abito da te

E la radio di bordo è una sfera di cristallo

dice che il vento si farà lupo il mare sciacallo

 

Il paralitico tiene in tasca un uccellino blu cobalto

ride con gli occhi al circo Togni quando l’acrobata sbaglia il salto

E le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli 

 

con una metafora un altro naufragio cantare

  

i marinai uova di gabbiano piovono sugli scogli

Il poeta metodista ha spine di rosa nelle zampe

per far pace con gli applausi per sentirsi più distante

 

e la sua stella si è oscurata da quando ha vinto la gara

                                                          di sollevamento pesi

E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva

ruba l’amore del capitano attorcigliandone la vita

 

con una metafora un altro naufragio cantare

 

Il macellaio mani di seta si è dato un nome da battaglia

tiene fasciate dentro il frigo nove mascelle antiguerriglia

ha un grembiule antiproiettile tra il Giornale e il gilè

 

E il pasticciere e il poeta e il paralitico e la sua coperta

si ritrovarono sul molo con sorrisi da cruciverba

a sorseggiarsi il capitano che si sparava negli occhi

 

con una metafora un altro naufragio cantare

 

e il pomeriggio a dimenticarlo con le sue pipe e i suoi scacchi

e si rifiutarono compatti nei sottintesi e nelle azioni

contro ogni sorta di naufragi e di altre rivoluzioni

e il macellaio mani di seta distribuì le munizioni…..

(Fabrizio De André, Parlando del naufragio della London Valour)

 

 

 

 

 

con una metafora un altro naufragio cantare

 

CONVINTI IL PROGRESSO AVER CONQUISTATO

 convinti il progresso aver conquistato

 

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convinti il progresso aver conquistato

 

 

 

 

 

L’Europa dell’età glaciale si trovava in uno stadio culturale che

alcuni hanno definito come ‘selvaggio’.

Bande di uomini seminomadi inseguivano e cacciavano le ren-

ne, i bisonti, i mammut e abitavano in grotte e ripari sotto roccia.

Malgrado le opere d’arte meravigliose che ci hanno lasciato, è 

molto difficile riconoscere nel loro modo di vita le basi sulle qua-

li si fonda la nostra società di oggi.

Bisogna convenire che i legami che ancora ci congiunguno a quei

cacciatori dell’età glaciale sono tenui. Ma quando prendiamo in

considerazione le prime culture storiche e protostoriche che fiori-

rono nell’Europa mediterranea, a Micene, in Etruria o nel mondo

gallo-celtico, ci accorgiamo che la civiltà come la concepiamo og-

gi, già allora possedeva tutti i suoi attributi e le sue leggi.

Ci accorgiamo che la chiave della nostra civiltà va ricercata prima

dell’inizio della piena storia, in quei millenni che separano la fine

dell’età glaciale dall’inizio della Grecia classica e di Roma.

 

convinti il progresso aver conquistato

 

Profonda valle che penetra nel cuore delle Alpi per oltre 70 Km,

in uno stupendo paesaggio di alte montagne, la Valcamonica è

situata a nord delle città di Brescia e Bergamo, tra il lago d’Iseo

e i ghiacciai dell’Adamello e del Cevedale.

Inizia a circa 200 metri sul livello del mare presso il lago  e si 

conclude al Passo del Tonale, all’altezza di oltre 1800.

L’antica civiltà della Valcamonica scomparve con l’avvento dei

Romani; le generazioni che seguirono dimenticarono il signifi-

cato e perfino l’esistenza dell’arte rupestre. Essa però rimaneva,

difesa dal terriccio, dai licheni e dal muschio, quasi inalterata

dal tempo.

 

convinti il progresso aver conquistato

 

Agli occhi delle popolazioni posteriori, che non potevano imma-

ginarne l’origine, le strane incisioni dovettero ben presto appari-

re opera di stregoni o di spiriti maligni e non si tardò ad attribui-

re a quei segni misteriosi, dei poteri malefici che bisognava esor-

cizzare (con tutto ciò che ne consegue negli altari della storia…..). 

Probabilmente le croci scongiuratorie di età storiche che trovia-

mo talvolta accanto a incisioni preistoriche, possono essere così

spiegate.

 

convinti il progresso aver conquistato

 

….Continuando a ricercare, non tardammo a renderci conto che

le incisioni si estendevano a rocce e in zone ancora inesplorate.

Sotto al muschio e all’erbe si nascondeva un inestimabile tesoro

di arte preistorica.

Sia per la sua ubicazione geografica, sia per la qualità insolita 

delle figure, e per il loro carattere realistico-descrittivo, era pre-

vedibile che la Valcamonica potesse dare dei risultati etnologi-

ci di gran lunga superiori agli altri gruppi di arte rupestre euro-

pea di cui mi occupavo in quel momento, in Francia, Spagna, e

altrove, e che, se studiata a fondo, questa zona avrebbe potuto

procurare la soluzione di molti problemi di preistoria, tanto

sul piano locale come su quello europeo.

Oggi si conoscono in Valcamonica più di 600 rocce, che racchiu-

dono nel loro insieme oltre 30.000 incisioini preistoriche.

Molte di queste sono già state rilevate e fotografate, mentre la

loro analisi e il loro studio procedono con ritmo crescente. 

(Sono delle vere perle simmetriche alla storia….)

(E. Anati, Civiltà preistorica della Valcamonica)

 

 

 

 

 

convinti il progresso aver conquistato

    

ANCHE SE ORA IL SUO RICORDO APPARE LONTANO (domani lo rimpiangeranno come un mondo per sempre rovinato)

 
 
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…Quando gli yahgan trovano un pubblico interessato….,

si mettono con piacere a frugare nella memoria per raccontare

storie che avevano sentito tanto tempo prima e a cui ancora cre-

devano fermamente, storie che, ne sono certo, non erano inven-

tate lì per lì al solo fine di intrattenermi.

Ce n’era una che spiegava in che modo a Syuna, il pesce di scoglio,

fosse venuta la testa piatta.

Qualche chilometro a est di Lanushwaia c’è un piatto promontorio

di ciottoli, seguito, ancora un po’ più a est, da una scoscesa costa 

rocciosa interrotta qua e là da insenature riparate, ideali per le

canoe.

Il migliore di questi piccoli porti è quello di Wujyasima (acqua sul-

la soglia), che un tempo era il sito preferito dagli yahgan per pianta-

re le loro capanne.

 

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Una volta una ragazza si allontanò dal suo focolare a Wujyasima

e arrivò a piedi fino al promontorio di ciottoli, dove cominciò a

giocare, inseguendo le onde di risacca che si ritiravano dalla spiag-

gia e correndo indietro quando arrivavano i frangenti. 

Un vecchio leone marino la osservava non visto, con sguardo anelan-

te; e quando una grande onda la fece cadere, la fanciulla si trovò

distesa per terra con l’animale di fianco.

Come tutte le donne yahgan la giovane era un’ottima nuotatrice e

cercò quindi di sfuggirgli, ma il leone marino, mettendosi tra lei e

la spiaggia e costringendola ad allontanarsi sempre più verso il

largo, alla fine riuscì a spossarla e la ragazza fu ben lieta di posa-

re la mano sul collo dell’animale. Adesso che la sua vita dipende-

va da lui, la ragazza cominciò a provare simpatia per la sua strana

scorta.

Nuotarono insieme per molte miglia fino a quando raggiunsero

una grande rupe, dove c’era una grotta. Lei sapeva che non sareb-

be mai riuscita a nuotare fino a casa senza aiuto, perciò decise di

accettare l’inevitabile e andò a vivere con il leone marino nella grot-

ta. L’animale procurava all’amata pesce in abbondanza, che la giova-

ne, non disponendo di fuoco, mangiava crudo.

 

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Passò il tempo e nacque un figlio.

Per quanto avesse la forma di un bimbo umano, era tutto coperto

di peli, come una foca. Il bambino crebbe alla svelta e fu di grande

compagnia per la madre, soprattutto dopo che ebbe imparato a par-

lare. Questo il leone marino non fu mai in grado di farlo, ma la ragaz-

za se ne innamorò comunque sempre di più, perché era gentile e

premuroso.

 

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Ciò non toglie che provasse un intenso desiderio di rivedere la

sua terra e i suoi cari.

Riuscì a farlo capire al compagno e un giorno tutti e tre presero

il mare diretti a Wujyasima. A tratti mamma e figlio nuotavano di

fianco al loro protettore; in altri momenti si facevano trascinare tra

le onde a gran velocità; e altre volte ancora gli salivano sul dorso.

Alla fine raggiunsero il promontorio di ciottoli.

Il leone marino si trascinò sulla spiaggia e si distese a scaldarsi al

sole, mentre la mamma, tenendo per mano il suo strano figliolet-

to, si incamminò verso Wujyasima. Al villaggio trovò molti parenti,

che da tempo l’avevano data per morta. Colmi di meraviglia ascol-

tarono la sua storia e grande interesse suscitò in loro quel buffo fi- 

glio ibrido.

 

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Passata l’eccitazione per l’incontro inatteso, le donne del villaggio

dissero che dovevano scendere in canoa lungo le coste rocciose più

a est, per cercare molluschi d’acqua profonda e ricci di mare, che ave-

vano le dimensioni e la forma di mele schiacciate, con i duri gusci rico-

perti di setole rigide come chiodi.

La giovane madre andò con loro, mentre gli uomini e i bambini resta-

rono all’insediamento. I bambini si misero a giocare e il piccolo visita-

tore si unì a loro con entusiasmo.

Gli uomini, però, desideravano mangiare carne e uno di loro, sapendo

che c’era una foca sulla spiaggia, disse:

Perché ce ne restiamo qui tenendoci la nostra fame?

Presero perciò gli arpioni e, avvicinatisi furtivamente al vecchio

leone marino, lo uccisero. Carichi di carne, tornarono al villaggio e

cominciarono a cucinarsi il pasto. I bambini sentirono il delizioso

odore della carne e si raccolsero attorno al fuoco.

Quando furono distribuite le razioni, il giovane visitatore ricevet-

te la sua parte come gli altri. La assaggiò e gridò con gioia:

Amma sum undupa! (E’ carne di leone marino).

Quindi, mentre ancora mangiava, corse verso la madre, che proprio

in quel momento stava ritornando. Le donne avevano accostato le

canoe a una roccia scoscesa che con l’alta marea serviva da pontile

ed erano scese a terra con i loro canestri pieni di ricci di mare.

I piccino corse dalla mamma e le offrì l’ultimo boccone, dicendo

che era saporito.

In un lampo la mamma capì che cos’era successo. Afferrò dal canestro

un grosso riccio di mare e lo scagliò sulla fronte del bambino, che cad-

de nell’acqua profonda, trasformandosi all’istante nel syuma, il pesce di

scoglio, e si allontanò nuotando.

Le altre donne arrivarono alle capanne e si rallegrarono alla vista della

carne di foca arrostita, ma la madre rifiutò di mangiarne e pianse da so-

la il figlio perduto e il suo vecchio e generoso compagno.

Non si maritò più con nessuno della sua gente.

Se esaminate un syuna vedrete che la sua testa è piatta e ricoperta dai

forellini lasciati dagli aculei del riccio di mare, a riprova inconfutabile

della veredicità del racconto.

(E. Lucas Bridges, Ultimo confine del mondo)

 

 

 

 

 

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