UNA VISIONE PIENA DI SORPRESE (2)

Galileo scriveva, nel 1623, che il primo inventore del telescopio fu certo un semplice occhialaio

il quale, maneggiando per caso lenti di diversa forma, guardò sempre per caso attraverso due

di queste, una convessa e l’altra concava, e ponendole a diversa distanza dall’occhio osservò

l’inaspettato risultato e così scoprì lo strumento.

Questa fortunata combinazione di lenti probabilmente si sarebbe potuta verificare, più o meno

nello stesso periodo, nel laboratorio di diversi occhialai. La storia più verosimile fa risalire

questo episodio cruciale al 1600 circa e lo colloca a Middelburg, nel laboratorio di un oscuro

occhialaio olandese di nome Hans Lippershey.

Si racconta che due bambini capitati nel suo laboratorio, giocando con le lenti, ne misero due

assieme, vi guardarono attraverso puntandole verso una distante banderuola posta sulla

chiesa della città la videro meravigliosamente grande; anche l’occhialaio guardò e da allora

si dedicò alla fabbricazione dei telescopi. Si riteneva che questo Lippershey fosse un ‘meccanico

illeterato’, ma evidentemente non lo era tanto da non sapere come sfruttare la sua buona

sorte; il 2 ottobre 1608 infatti gli Stati Generali che governavano la nazione olandese ricevettero

una sua petizione: ” Un occhialaio inventore di uno strumento per vedere a distanza, come

è stato dimostrato agli Stati, rivolge preghiera che il detto strumento sia tenuto segreto e

che gli sia garantito un privilegio di trent’anni per effetto del quale a chicchessia venga

proibito di imitare questi strumenti oppure che gli venga erogata una pensione annuale che

gli permetta di costruire questi strumenti per l’utilità del suo paese soltanto, senza venderne

alcuno a re e principi stranieri. E’ stato deciso che alcuni membri dell’Assemblea formino una

commissione che prenda contatti con il postulante riguardo alla detta invenzione, per

domandargli se non sia possibile migliorarla in modo da potervi guardare attraverso con

entrambi gli occhi…”.

Galileo stesso soleva guardare un oggetto attraverso il telescopio e poi andargli vicino per

essere sicuro di non essersi ingannato. Egli dichiarò che dal 24 maggio 1610 aveva sperimentato

il suo telescopio ‘centomila volte in centomila stelle e oggetti diversi’.

Dodici mesi più tardi lo stava ancora provando:” Né potendo dubitare che io, per lo spazio

hormai di due anni, abbia del mio strumento, anzi pur di decine di miei strumenti, fatte 

centinara di migliara di esperienze in mille e mille oggetti, et vicini e lontani, e grandi e 

piccoli, e lucidi et oscuri, non so vedere come ad alcuno possa cadere in pensiero che 

io troppo semplicemente sia rimasto nelle mie osservazioni ingannato”. 

INGENUO DAVVERO!

Galileo fu precoce crociato dei paradossi della scienza contro la tirannide del buonsenso.

Il grandioso messaggio del telescopio non consisteva nel mostrare gli oggetti terrestri 

che Galileo poteva andare a verificare di persona e a occhio nudo, ma nel mostrare 

piuttosto l’infinità di ‘oggetti diversi’ che non solo non si potevano osservare di persona,

ma nemmeno vedere a occhio nudo. 

Anche John Milton fu sconcertato della nuova cosmologia e dubbioso del suo significato.

Appena trentenne visitò l’ormai cieco Galileo ad Arcetri, vicino Firenze, dove era confinato

per ordine papale. Successivamente nella sua opera Areopagitica (1644), pubblicata due

anni dopo la morte di Galileo, Milton lo descrisse come una vittima eroica. 

“QUESTO E’ CIO’ CHE HA SOFFOCATO LA GLORIA DELLE ECCELSE …MENTI ITALIANE

(presi da altri intrallazzi e sollazzi…), nulla è stato scritto colà in tutti questi anni se non 

lusinghe e ampollosità. Là ho trovato e visitato il famoso e ormai vecchio Galileo, 

IMPRIGIONATO DALL’INQUISIZIONE, per aver espresso in materia di astronomia (et altri

argomenti…) idee diverse da quelle dei censori francescani e domenicani”. 

(D.J.Boorstin, L’avventura della scoperta)

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UNA VISIONE PIENA DI SORPRESE

Da http://pietroautier.myblog.it

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Il passaggio dall’osservazione a occhio nudo alla visione con strumenti ottici sarebbe

stato uno dei più grandi progressi della storia del pianeta, fino al 1600 nessuno si

dedicò alla ricerca sul telescopio. Uno dei più radicati e diffusi pregiudizi era la

fede nella percezione non aiutata e non mediata dei sensi umani.

Non sappiamo da chi, come o dove siano stati inventati gli occhiali; a quanto sembra 

ci si arrivò per caso e per opera di un profano privo di qualsiasi cognizione di ottica.

Forse un vecchio artigiano, eseguendo dischi di vetro per finestre piombate, si accorse

guardandovi attraverso che consentivano di vedere meglio. Possiamo comunque 

ritenere che l’inventore non fosse un accademico, perché questi personaggi amavano

vantarsi delle proprie scoperte, mentre non abbiamo notizia di nessun sedicente

inventore di lenti prima del 200. 

Il nome ‘lente’, scelto per analogia con la forma del legume omonimo, non è il tipo

di parola che un dotto avrebbe usato per definire l’applicazione delle sue teorie 

ottiche. 

Dai primi usi menzionati degli occhiali, prima del 300, all’invenzione del telescopio,

quasi trecento anni dopo, le lenti furono ignorate dagli studiosi per molte ragioni.

A quei tempi si sapeva pochissimo sulla teoria della rifrazione della luce, perché chi

aveva intrapreso ricerche in questo campo, invece di studiare la rifrazione attraverso

semplici superfici curve, si era lasciato attrarre dal culto delle forme perfette, come 

cerchi e sfere, e aveva preferito ricercarne gli effetti su una sfera completa di vetro

che implicava le più complesse aberrazioni, non approdando così a nulla.

Un altro ostacolo alle ricerche sugli effetti delle lenti erano le teorie sulla luce e la

visione. Fin dai tempi più antichi i filosofi europei si erano preoccupati essenzialmente

di spiegare non la luce come fenomeno fisico, ma ‘come la gente vedesse’.

In effetti gli antichi greci ritenevano la visione un processo attivo dell’occhio umano,

più che la passiva registrazione di impressioni fisiche ricevute dall’esterno.

La teoria prospettica di Euclide poneva nell’occhio e non nell’oggetto visto l’origine

delle linee di visione. Platone e i pitagorici descrivevano il processo visivo come

dovuto a emissioni dell’occhio che in qualche modo circondavano l’oggetto visto.

Tolomeo condivideva questa impostazione, mentre Democrito e gli atomisti suggerivano

che emissioni da parte dell’oggetto visto entrassero nell’occhio e producessero le

immagini. Galeano, l’arbitro dell’anatomia europea, sollevò l’assennata obiezione che

immagini grandi come quelle delle montagne non avrebbero potuto restringersi per

passare attraverso la minuscola pupilla dell’occhio e sostenne che gli atomisti non

avrebbero neanche potuto spiegare come un unico oggetto potesse produrre abbastanza

emissioni da raggiungere tutti coloro che lo avessero visto contemporaneamente.

Galeano elaborò una teoria di compromesso e cercò di riferirla alla fisiologia dell’occhio.

(D.J. Boorstin, L’avventura della scoperta)

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UN OTTICO

Daltonici, presbiti, mendicanti di vista,

il mercante di luce, il vostro oculista,

ora vuole soltanto clienti speciali

che non sanno che farne di occhi normali.

Non più ottico, ma spacciatore di lenti,

per improvvisare occhi contenti,

perché le pupille abituate a copiare

inventino i mondi sui quali guardare.

Seguite con me, questi occhi sognare,

fuggire dall’orbita, e non voler ritornare.

PRIMO CLIENTE: – Vedo che salgo a rubare il sole

per non avere più notti

perché non cada in reti di tramonti,

l’ho chiuso nei miei occhi,

e chi avrà freddo

lungo il mio sguardo si dovrà scaldare.

SECONDO CLIENTE: – Vedo i fiumi dentro le mie vene,

cercano il loro mare,

rompono gli argini,

trovano cieli da fotografare.

Sangue che scorre senza fantasia

porta tumori di malinconia.

TERZO CLIENTE: – Vedo gendarmi pascolare donne

chine sulla rugiada,

rosse le lingue al polline di fiori

ma dove l’ape regina?

Forse è volata ai nidi dell’aurora,

forse è volata, forse più non vola.

QUARTO CLIENTE: – Vedo gli amici ancora sulla strada,

loro non hanno fretta,

rubano ancora al sonno l’allegria,

all’alba un po’ di notte:

e poi la luce, che trasforma

il mondo in un ….giocattolo.

Faremo gli occhiali così!

Faremo gli occhiali così!

( Fabrizio de André, Non al denaro non all’amore né al cielo)

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SUMMIS DESIDERANTES AFFECTIBUS

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“Desiderando con la più profonda sollecitudine, così come richiede anche la premura

pastorale, che la fede cattolica debba, specie nel nostro tempo, diffondersi e fiorire

dappertutto, e che tutti i pervertimenti eretici debbano essere scacciati dai territori

dei fedeli, PROMULGHIAMO volentieri ed enunciamo quei particolari mezzi e metodi

con cui possa compiersi il nostro sforzo cristiano; affinché, quando tutti gli errori 

saranno stati sradicati dalla nostra opera, come fa con la zappa il previdente agricoltore,

l’ardore e la devozione alla nostra Fede possa impossessarsi fortemente dei cuori dei

fedeli.

Di recente è giunta alla NOSTRA ATTENZIONE, non senza una grande amarezza, la 

notizia che nelle provincee, nelle città, nei territori, nei distretti e nelle diocesi di 

Magonza, Colonia, Treves, Salisburgo, Brema, e molti altri luoghi che quivi sono

omessi; molte persone di entrambi i sessi, incuranti della loro salvazione e 

allontanandosi dalla fede cattolica, si sono abbandonati ai DEMONI, incubi e 

succubi, e con i loro incantesimi, magie, scongiuri, ed altre detestabili malie e 

inganni, malvagità ed orribili colpe, distruggono GLI  INFANTI delle donne e la 

prole del bestiame, disseccano e sradicano  i frutti della terra, le viti e i frutti

degli alberi: inoltre, uomini e donne, bestie da soma, da pascolo e animali di 

altro genere, vigneti, frutteti, prati, pascoli, frumento, grano ed altri cereali

della terra. Inoltre queste persone INDEGNE affliggono e tormentano uomini 

e donne, bestie da soma, da pascolo, e animali di altro genere, con pene a 

malatte, sia interiori che esteriori; impediscono agli uomini di generare ed 

alle donne di concepire, per cui né i mariti con le loro mogli né le mogli con 

i loro mariti possono congiungersi; oltre a ciò essi RINUNCIANO IN MANIERA 

BLASFEMA a quella fede che hanno ricevuto con il sacramento del battesimo,

e dietro istigazione del Nemico del genere umano non rifuggono dal commettere

e perpetrare le PIU’ IMMONDE ABOMINAZIONI ED INTEMPERANZE, con 

mortale pericolo per la loro anima, per cui oltraggiano la Divina Maestà e sono

causa di scandalo e di cattivo esempio a molti.

Perciò come è nel nostro dovere, desiderosi di rimuovere tutti gli impacci e gli

ostacoli che potrebbero IMPEDIRE IL LAVORO DEGLI INQUISITORI, e di 

applicare potenti rimedi per prevenire il contagio DELL’ERESIA ED ALTRE 

TURPITUDINI che diffondono i loro veleni per la distruzione di altre anime

innocenti, come richiede la nostra posizione, e segnata dal più grande ardore

per la Fede, per timore che le province, le città, i distretti, le diocesi e i territori

facenti parte dello Stato Pontificio, che abbiamo in parte specificato, VENGANO

PRIVATI DEI BENEFICI DEL SANTO UFFIZIO DELL’INQUISIZIONE ivi assegnato,

con la copia esatta di questo documento, in base alla nostra autorità apostolica, 

DECRETIAMO ED INGIUNGIAMO CHE I SUDDETTI INQUISITORI SIANO 

FORNITI DI POTERE PER PROCEDERE ALLA CORREZZIONE, ALL’

IMPRIGIONAMENTO E ALLA PUNIZIONE DI QUALSIASI PERSONA PER LE 

DETTE ABOMINAZIONI E MALVAGITA’, SENZA OSTACOLI ED IMPEDIMENTI”. 

(5 DICEMBRE 1484, ‘Summis desiderantes affectibus’ Papa Innocenzo VIII)

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IL PACEVOLE VIAGGIO DI CUCCAGNA

Da http://storiadiuneretico.myblog.it

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Venite spensierati e compagnoni,

voi ch’avete sì in odio il lavorare,

amici delli grassi e buon bocconi,

nemici del disagio e del stentare.

Omini di gran cor, non già poltroni,

come gli avari vi voglio(n) chiamare,

venite tutti, che andiamo in Cuccagna,

dove chi più dorme più guadagna.

Venite, su, ch  ‘l dritto e buon camino

intendo di mostrarvi allegramente,

senza che pur spendiate un sol quatrino,

e buona ciera arete dalla gente;

ora il viaggio del primo mattino

a man manca sarà verso ponente,

per la gran strada delli desviati,

che a l’ostaria va dei spensierati.

Larga è la strada e molti troverai

che s’aggiran per essa volentieri,

e senza più temer d’affanni e guai

lassan gir oggi  ‘l mondo come ieri,

tanto che a l’ostaria tu giongerai

dei spensierati, dove ai forestieri

si fa grata accoglienza col bocale,

galdeano, pan unto e carnevale….

(Il piacevole viaggio di Cuccagna, 1588)

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ANIMALI E CREATURE MOSTRUOSE: ULISSE ALDROVANDI

Da http://storiadiuneretico.myblog.it

Fu lo studio dei mostri                                             oiklj.jpg

a proiettare Aldrovandi

sulla scena internazionale.

L’esame del drago nella campagna

bolognese il giorno dell’avvento

di Gregorio XIII al soglio pontificio

(13 maggio 1572), suscitò infatti un

vivo interesse, e aumentò enormemente

il numero di visitatori del suo museo, e anche di quelli

che lo consultavano, per lettera o recandosi a Bologna.

In questo lavoro particolarmente impegnativo, date le strette correlazioni 

con l’alta politica, il Nostro dimostra grande prudenza e rigore scientifico.

Siamo nel CINQUCENTO (ed il Nostro…impiega tutto il rigore scientifico

prestato ai moderni mezzi di allora….), poco dopo il concilio di Trento, che 

ha avuto come protagonista, per la competenza giuridica, Ugo Boncompagni

il futuro papa.

Ora, nel nuovo ruolo cui è assunto, Gregorio XIII  ha la grande responsabilità

di applicare le decisioni tridentine. 

Nello stemma di famiglia c’è il drago alato (molti voti e pan salato).

Il drago è il demonio dell’Apocalisse. Quindi, la comparsa di quello strano 

mostriciattolo nella campagna bolognese potrebbe essere interpretata dai nemici

dei cattolici (in veste di laici…s’intende…, la politica è mala sorte compagna mia),

come testimonianza del fatto che Gregorio sia L’ANTICRISTO. 

Per questo, lo studio ‘accurato’ dell’Aldrovandi assume importanza critica.

La storia, anche relativamente recente, contiene racconti di supplizi che furono

sottoposti animali domestici e i loro proprietari (Aldrovandi è muto testimone 

di siffatto dolore, non ha colore la camicetta dell’inquisitore).

Aldrovandi è all’altezza della situazione.

Non sa che cosa sia, tuttavia sostiene che si tratti di un evento inconsueto, ma naturale,

privo pertanto di significati trascendenti. 

Il drago, raffigurato nelle tavole si trasforma così nel trionfo di Aldrovandi e (naturalmente)

di Gregorio (la pagnotta …non è ricotta nemmeno pan salato di un buon palato sulla 

lunga via che da Bologna dritta dritta…. porta fino alla Svizzera).

E l’immagine del drago araldico di Bon-compagni, nel corridoio delle carte geografiche 

in Vaticano e sulla facciata del Palazzo della ZECCA a Bologna, rimane la firma dell’

attività (congiunta) edilizia di questo grande papa e di chi ne CANTO’ LA SORTE…. 

(Animali e creature mostruose, Ulisse Aldrovandi)

…… sito consigliato ……

http://www.filosofia.unibo.it/aldrovandi

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400 a.C. LA GUERRA DEL VINO (prima di quella dell’oppio)

Da  http://storiadiuneretico.myblog.it

Aruns – racconta la storiella -, cittadino dell’etrusca Clusium (l’odierna Chiusi nella

provincia non ancora celtizzata di Siena), aveva dovuto constatare che un giovane

uomo di mondo, Lucumo – da ‘lauchme’, estrusco per ‘patriziato’ – era riuscito a

sedurgli la moglie. Ora, essendo questo Lucumo non solamente un consumato

‘latin lover’, bensì un membro del ceto dominante della comunità estrusca, se 

Aruns voleva vendicarsi – ovvero, ipotesi naturale, sfogare il suo odio di classe

contro il nobile -, doveva mobilitare mezzi più forti di quelli a sua privata 

disposizione.

Questi mezzi, egli credette di averli trovati nei celti, che s’erano già spinti fin 

sotto Chiusi e ai quali egli era già servito anche in precedenza di guida per 

passare le Alpi; donde possiamo forse dedurre che egli intratteneva con 

loro relazioni commerciali. Soprattutto sembra che fornisse loro anche vino, 

bevanda che essi apprezzavano oltre misura e che non conoscevano, perché

nei loro luoghi avevano solo la birra.

Del vino Aruns fece la sua arma. 

Gliene portò, dunque, ‘per allettarli’, cioè, diciamo, per far loro sapere quale 

speciale vitigno crescesse nei pressi di Chiusi ( quello, pregiato, di Montepulciano).

I celti vennero sul serio. 

Livio ritiene che si trattasse dei sènoni, ma non esclude che sotto il loro stendardo 

marciassero altre tribù. 

Gli abitanti di Chiusi – che dovevano avere informazioni più che abbondanti sui 

celti da parte dei loro compatrioti stanziati più a nord -presero un grande spavento 

‘quando videro tanti nemici dall’aspetto e dalle armi mai visti’….Mandarono perciò 

inviati a Roma per chiedere aiuto al senato, nonostante non fossero legati ai romani 

né da alleanza né da amicizia. 

Roma però, dissanguata e impoverita per le guerre precedenti, non vide motivo di 

mobilitare subito un’armata per aderire alla preghiera di una lontana città-stato, tanto

più che Clusium era una possente città fortificata. Si limitò quindi a inviare tre

messaggeri, incaricati, da un lato di esaminare la situazione, dall’altro di svolgere

opera di mediazione fra etruschi e celti.

Gli aggressori reagirono in maniera estremamente ragionevole al tentativo di contatto

romano. Perché, come dichiararono i loro capi parlamentari, ‘nonostante sentissero

per la prima volta il nome dei romani, tuttavia propendevano a ritenere che fossero

gente forte, visto che i chiusani a loro s’erano rivolti in quel frangente. E siccome i

romani preferivano proteggere i propri alleati con un’ambasceria anziché con le armi,

essi non respingevano le proposte di pace, a condizione che i chiusini gli cedessero

una parte di quei campi che possedevano con tanta abbondanza e che per loro era

una questione di sopravvivenza. Se non li avessero ottenuti, allora avrebbero

combattuto sotto gli occhi dei romani, perché questi potessero riferire in patria

quanto superiori in guerra fossero i galli a tutto il resto dei mortali’.

– E quando i romani chiesero che razza di sistema fose quello di pretendere terra

dai proprietari o di minacciarli con le armi, e che cosa mai volessero i galli in

Etruria, essi risposero alteratamente che il loro diritto stava nelle loro armi e

che tutto apparteneva ai forti.

Chiaramente questa parte del racconto liviano suona più autentica che non la

storia del vinaio cornificato Aruns. Ma se la trattativa descritta ebbe effettivamente

luogo, se ne può dedurre la ragione vera della calata dei sènoni in meridione: il

bisogno di terra.

Perché, o essi vedevano i territori di recente conquista sotto la minaccia di altre

tribù in arrivo dal nord, oppure la malaria cominciava a farsi pericolosa.

E’ più probabile la seconda ipotesi, perché anche Diodoro Siculo – al corrente di

una tradizione analoga – scrive che, essendosi fatto per loro il clima ‘troppo caldo’

lungo la costa adriatica, risolsero di ‘abbandonare la loro sede sfavorevole’.

Ciò sembra degno di fede, poiché sappiamo che in questo periodo cominciò in

Europa, dopo un intervallo abbastanza lungo di estati fresche, un’epoca di temperature

elevate, che prosciugarono lagune e impaludarono rive, creando zone favorevoli

allo sviluppo della malaria.

In altre parole, non solo il vino aveva allettato i celti sènoni, ma il bisogno li aveva

mossi. (…dedicata a tutti gli …osti)

(G. Herm, Il mistero dei celti)

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LETTERE ANTICHE

Da http://storiadiuneretico.myblog.it

La diffusione della scrittura, sia come concetto sia come forma specifica, in tutta la regione

che si estende verso nord lungo la costa del Mediterraneo, comportò una diversificazione

piuttosto rapida. Un altro luogo di contatti frequenti e sviluppati tra egizi e fenici era 

Biblo, centro di importazione del papiro e di esportazione del legname, di cui la valle

del Nilo scarseggiava. Anche i greci, qualche secolo dopo, ebbero importanti contatti 

con i fenici a Biblo, al punto che il termine greco per designare il papiro, biblos, che si

fece strada nella lingua come base per la parola greca libro, biblion, deriva dal nome

di quella città.

Lavorando in questa regione negli anni trenta del XX secolo, l’archeologo francese 

Maurice Dunand trovò una quantità di iscrizioni, su tavolette di bronzo e cippi, 

in cui si può individuare una forma differente di scrittura cananea. Questa scrittura

è chiamata pseudogeroglifico, ma tutte le lettere fenicie eccetto due hanno prototipi

tra le loro forme. 

Dunand collocò queste iscrizioni nello stesso periodo di quelle del Sinai o anche prima,

ipotizzando che fossero anch’esse il prodotto di una popolazione di lingua semitica che

aveva inventato un sistema di scrittura sotto l’influsso degli egizi. Gli argomenti a favore 

dell’ipotesi che questa scrittura sia il prototipo dell’alfabeto fenicio si fondano sulla 

vicinanza geografica, sul verso della scrittura (entrambe vengono lette da destra a 

sinistra) e sul ritrovamento di alcuni documenti contenenti entrambi gli alfabeti.

Il numero di segni dell’alfabeto pseudogeroglifico era tuttavia molto maggiore 

rispetto a quello fenicio e costituiva apparentemente un sistema sillabico.

Non vi sono altri casi documentati di riduzione di una scrittura sillabica a fonetica, 

e i principi strutturali su cui sono basate sono tanto differenti da rendere improbabili

un tale passaggio. Ancora non vi sono reperti archeologici che permettono di 

rintracciare una trasmissione diretta da poter considerare questo pseudogeroglifico

come alfabeto originario, ma quel che è abbastanza chiaro è che il concetto e la 

pratica della scrittura si erano sviluppati nella regione ben prima che l’alfabeto fenicio si

consolidasse.

L’iscrizione su un sarcofago rinvenuto vicino a Biblo da Paul Montet nel 1923 è forse il

più antico fra gli esempi nord-semitici dell’alfabeto. Il testo è un epitaffio in lode del re

Ahiram e risale a non dopo il XIII secolo a.C..

L’alfabeto nord-semitico è il più prossimo e diretto predecessore di quello fenicio, e 

altri manufatti che contengono questa scrittura, come il calendario agricolo di Gezer,

sono stati attribuiti al primo millennio a.C. .

Il verso della scrittura, la forma, il numero e l’ordine delle lettere corrispondono ai 

caratteri fenici, sebbene la questione delle fonti originarie rimanga aperta. 

Il dibattito sulla datazione del sarcofago di Ahiram è ancora aperto e la discussione

della sua forma di scrittura è uno degli elementi principali nella battaglia tra 

semitisti e classicisti riguardo al momento di passaggio dell’alfabeto da questa regione

ai greci. 

Solide prove suggeriscono che l’alfabeto di questa iscrizione fornì i modelli per le lettere

greche e che la data di trasmissione risale all’incirca a questo periodo. In tal caso 

l’alfabeto greco costituirebbe uno dei molti rami dell’originario cananeo, come il 

fenicio, l’antico ebraico e il germoglio, di molto precedente, degli alfabeti sud-semitici.

Un altro punto di sviluppo di un alfabeto nel Levante fu a Ugarit, sulle coste del

Mediterraneo a nord di Biblo, dove intorno al 1400 a.C. si sviluppò una scrittura

cuneiforme. Composto di circa 32 segni, questo alfabeto, chiamato poi alfabeto

cuneiforme ugaritico, fu un altro esempio dell’adozione di un sistema di scrittura

preesistente da parte di una popolazione di lingua semitica. 

La struttura interna di questa scrittura, e la sua ben organizzata struttura fonetica, 

fecero pensare che si trattasse di un cuneiforme adattato a un modello preesistente

di scrittura alfabetica. Ed è probabile poiché l’unico sistema di scrittura fonetica

nella regione era l’alfabeto: tutte le altre scritture cuneiformi utilizzavano sistemi

sillabici.

La scrittura ugaritica aveva una direzione fissa da sinistra a destra e fu usata verso

ovest fino a Cipro e nell’intera area della Siria e della Palestina nel XIII e XII secolo

a.C. .

I testi delle tavolette ugaritiche narrano miti e leggende; e dalla serie di scoperte fatte a

partire dal 1929, la scrittura ha preso il nome di alfabeto di Ras Shamra. La chiave per

la sua decifrazione fu un abbeccedario, scoperto nel 1948, che usava la sequenza dell’

alfabeto semitico.

Nel 1955 il ritrovamento di una tavoletta bilingue in cuneiforme accadico e ugaritico

consentì la decifrazione definitiva di quest’ultimo, conformandone inequivocabilmente

la natura alfabetica. Ugarit venne distrutta intorno al 1200 a.C. e il sistema sillabico

cuneiforme, la cui efficenza pratica era limitata soltanto dall’impaccio delle tavolette

di argilla, vide la propria fine. In effetti il problema dei materiali ha una sua rilevanza,

perché il cuneiforme poteva essere scritto soltanto con una punta sull’argilla umida e

la sua riproduzione su altri supporti risultava inefficace e disagevole. L’alfabeto con

la sua forma e schematica, si prestava ad essere riprodotto con inchiostro sul papiro

con la stessa facilità che su materiali come la pietra, il vasellame e il metallo.

Dopo questa prima evoluzione, l’alfabeto si stabilizzò in Fenicia intorno al 1100 a.C..

Gli alfabeti sud-semitici avevano già preso una strada indipendente verso il 1300 a.C.

probabilmente a partire dall’originaria scrittura cananea.

Questi alfabeti conservarono a lungo uno dei caratteri distintivi della scrittura primitiva:

la multidirezionalità. Da questo ramo si svilupparono molte scritture preislamiche della

penisola arabica e la scrittura sabea che si diffuse nel Nord Africa e costituì il fondamento

prima dell’etiopico e poi del moderno amarico.

Questi alfabeti presentano una notazione vocalica completa, tipica dell’evoluzione

posteriore, ma la realizzano modificando i segni consonatici con l’aggiunta di stanghette.

Come l’alfabeto fenicio si stabilizzò, la direzione della scrittura divenne fissa da destra

a sinistra e l’ordine e l’orientamento delle lettere acquisirono una forma permanente, da

cui derivarono le importanti branche del greco e dell’aramaico e le forme di minor successo

dell’antico ebraico e del punico.

(J. Drucker, Il labirinto alfabetico)

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LE RUNE DELLA MEMORIA E TROPPA BIRRA NELLA STORIA

Da http://giulianolazzari.myblog.it

Alla fine dell’800 l’esoterismo rosacrociano convergerà con il magismo delle

rune (l’interpretazione è di origine austriaca) nella versione germanica di

questi gruppi ‘occultistici’ (la società del Vril, la Loggia luminosa, la società

Thule).  

E’ noto che Schwabing era il quartiere ove Hitler trascorse i suoi anni di 

Monaco prima della guerra, probabilmente già allora assorbiva idee che 

avrebbe rincontrato nel 1920 e maturò fino al 38.

Dalle rune, il cui segreto List studiava, proviene la sigla delle SS. Ritroveremo

l’idea di un magico patto tra l’uomo e il cosmo mediato da una personalità creatrice, 

il capo giunto dall’alto.

Per quanto riguarda la situazione tedesca, la società Thule diviene la matrice del partito

mentre il Vril è l’istituzione della sfera iniziatica.

Il partito è a Monaco, il Vril a Berlino. I rapporti tra i due livelli sono sovente conflittuali. 

E’ importante stabilire che vi è un punto di riferimento istituzionalizzato della dottrina

segreta e della sua politica occulta che sorge contemporaneamente alla trasformazione

della società Thule, essa deriva dal ‘Germanenorden’. 

Nel gennaio 1918 esce, finanziato da von                          lkikjkm.png

Sebottendorff, il mensile ‘Runen’; nello 

stesso mese di gennaio Anton Drexler,

membro dell’ordine, fonda una 

‘Libera associazione di lavoratori

per una giusta pace’, in luglio la 

sede dell’Ordine è fissata all’albergo

‘Quattro Stagioni’ di Monaco e von 

Sebottendorff acquista il ‘ Munchner Beoachter’, che poi diviene come 

‘Volkischer Beobachter’, il quotidiano del partito nazista.  

Il Germanenorden, il 25 novembre 1918, sotto l’influenza della direzione 

suprema segreta di Berlino, pubblicò sul bollettino interno delle ‘logge’ 

razziste un documento di importanza STORICA, tale che ci si meraviglia di

non averlo mai visto citato da nessuno specialista.

Queste idee direttrici della ‘Gran Loggia’ di Berlino furono le premesse del 

razzismo e la presunta superiorità ariana, che di fatto portarono il movimento

razzista alla graduale ascesa come partito politico. 

L’IDEA DI TRASFORMARE UNA NAZIONE ATTRAVERSO LA PUREZZA DEL

SANGUE è basata, infatti, su certe teorie ESOTERICHE-ALCHEMICHE della Grande

Opera. L’adepto osserva il ruolo determinante della purezza e della consanguineità,

nei fenomeni che studia, e che gli insegnano leggi di morte e di vita nell’universo, 

leggi ancora sconosciute alla scienza contemporanea. Ma è nell’estrapolazione di 

questi fatti a sistemi politici e sociali che hanno inizio gli ERRORI E GLI ORRORI

fondamentali.

Nei riguardi dell’alchimia l’essere umano non è trasformabile nella sua essenza da

parte dell’uomo: lo può essere soltanto sul piano delle apparenze fisiche, morali e

intellettuali. Per estesi che siano i suoi effettivi poteri in questo dominio, essi si 

arrestano ad un limite che non può essere infranto. Su questa frontiera inizia 

l’ordine spirituale e, con esso, l’azione di forze che non sono più umane ma 

universali, e che si possono comparare a quelle della gravitazione. 

Ciò che chiamiamo la ‘potenza di Dio’ e ‘ l’amore’, senza conoscerne la natura, sono

forme della medesima attrazione spirituale; ciò che noi teniamo, giustamente, sotto

il nome di ‘potenza diabolica’ e ‘dell’odio’, e di cui ignoriamo altrettanto il 

significato reale, sono forme della medesima repulsione che ci allontanano 

indefinitivamente dalla verità. 

L’uomo è libero, spiritualmente, di aprirsi e di lasciarsi possedere da queste forze

non-umane che, sole, possono cambiare essenzialmente la sua natura, sia per farlo

progredire verso la luce, sia per farlo progredire dal suo stato umano, verso uno 

stato infra-umano.

Per questo, esiste una iniziazione ed una contro iniziazione, una strada verso la 

luce e una strada verso le tenebre, che sono state separate dopo la nascita dell’

umanità e lo saranno fino alla fine.

Tuttavia, l’intervento nella Storia di potenze, venute dall’alto o dal basso, aggiunge

alla necessità di costruire la città degli uomini, l’obbligo di aprirla alle forze del giorno

e di chiuderle a quelle della notte.  

(Rene Alleau, Le origini occulte del nazismo; Giorgio Galli, Hitler e il nazismo magico)

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SESTO SECOLO a.C.

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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Se il predominio etrusco e la diretta colonizzazione occupano soltanto una

parte dell’Italia continentale, l’attività commerciale e l’influenza culturale degli

etruschi si estendono assai più largamente.

L’Etruria rappresenta infatti nel centro della penisola il solo faro di civiltà che

irraggi da un’epoca piuttosto remota su popolazioni generalmente arretrate.

Una vasta corrente di merci fu allora convogliata dalle città etrusche della

Padania di là delle Alpi, molto prima che i romani conoscessero anche solo

il nome di quei paesi.

Sparse per tutta Europa si trovano le tracce che solo nei passati decenni ritornarono

sempre più numerose in luce, testimonianze di un primo grande mercato comune

ai primi albori dell’Occidente, di cui andò perduta ogni notizia.

Beni d’esportazione etrusca furono rinvenuti in Austria e in Francia, in Ungheria

e in Polonia, in Svizzera e in Renania. Né mancano in Scandinavia: ad Hassle, in

Svezia, si rinvenne la traccia più settentrionale, sotto forma di un piccolo Tesoro

rettangolare con bronzi etruschi.

Già molto presto, prima dell’occupazione della Padania e prima ancora del 600

a.C. quando gli esuli greci di Focea si stabilirono sul delta del Rodano fondandovi

Massilia, l’Etruria possedeva ramificazioni commerciali nei paesi nordalpini. 

Resti che risalgono al settimo secolo a.C. rivelano, di là dalle Alpi, influssi e 

contatti etruschi. 

E’ il tempo in cui nasce, nella parte sud-occidenatale dell’Europa centrale, un 

nuovo grande popolo le cui tribù appaiono per la prima volta alla ribalta,

riconoscibili per un coerente contesto culturale e linguistico: i celti.

Una cosa è indiscutibile e sicura: l’influsso etrusco si fa chiaramente riconoscibile a

partire dal sesto secolo a.C.. Dalla valle padana si avvia per i passi alpini un più

ampio flusso di merci d’ogni genere; i mercanti etruschi esportano prodotti della 

loro industria e artigianato artistico e vino!

La lista delle offerte etrusche contempla anche – articolo prediletto e ricercato dagli 

etruschi stessi – prodotti greci, soprattutto vasi attici che riscuotevano il massimo

favore anche presso i rozzi guerrieri del nord.

Il commercio estero etrusco si esercitò soprattutto con le tribù celtiche dell’alto corso

del Danubio prima, e poi con la Renania centrale e la Borgogna. Fra le importazioni

del sud primeggiava il vino, che riscosse tanto successo da divenire il primo concorrente

della birra celtica. Gustatolo una volta, i principi guerrieri ne ordinavano in quantità sempre

maggiori, neppure le loro belle dame ne disdegnavano il buon sapore.

L’introduzione del vino segnò l’apertura di un altro mercato, quello dei contenitori

destinati a contenerlo: anfore, coppe, boccali ecc, di fattura etrusca e greca.

Il trasporto era spesso faticoso ma redditizio, perché i celti pagavano in oro, metalli e

schiavi. 

I celti del medio Reno ricevettero dagli etruschi lo stimolo della costruzione di monumenti

di pietra lavorata a scalpello e assunsero molto probabilmente dalla stessa anche il 

motivo dell’immagine bifronte, una sorta di Giano. 

Solo un esame di tutti i reperti a nord delle Alpi e oggi dispersi in innumerevoli collezioni

e musei, consentirà un giorno un quadro più esatto dell’entità dell’influsso etrusco 

oltralpe. 

Solo vagamente si intravede oggi per la prima volta quanto l’Europa centrale debba 

al ‘popolo dimenticato’ in fatto di civiltà e cultura, molto prima dell’inizio della storia.  

Anche l’arte del leggere e dello scrivere insegnarono infatti gli etruschi agli abitanti

della Padania, che prima l’ignoravano. Al così detto alfabeto estrusco settentrionale

adottato nella valle del Po dalla fine del sesto secolo, si riportarono le scritture dei 

veneti, dei reti, dei leponzi, e di altre popolazioni alpine. 

Persino un grande e noto popolo nordalpino, i GERMANI, deve la scrittura ai signori

della Lega delle dodici città padane, cosa fino a poco fa contestata. 

Siamo finalmente certi che le rune risalgono all’alfabeto nord-etrusco il quale fu 

portato dalle tribù abitanti la zona alpina, e, a sentire Livio, gli etruschi vissero in 

seguito nelle Alpi orientali. 

Viktor von Scheffel durante uno dei suoi viaggi nei Grigioni, esclamò infatti lietamente:

– Salve a te, vecchia terra degli etruschi, Engadina dai molti enigmi!

(W. Keller, La civiltà etrusca)

…siti consigliati….

 http://www.canino.info/inserti/monografie/etruschi/musei/vulci

 www.vulci.it

 www.parcodeglietruschi.it

 www.parcodiveio.it

 www.parchivaldicornia.it

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