IL BOSS A BRUSSELLA E L’ERETICO A BONONIA

 Da http://storiadiuneretico.myblog.it

BOLOGNA:

Fu la Città di Bologna, fecondo gl’ anticha Autori, fabbricata da’ Tofcani,

conflituendola Capitale delle dodici città, che i Tofcani ploffedevano in

Lombardia; di dove furono cacciati da’ Galli, al tempo de’ Tarquinj, e

quefti finalmente da’ Romani, che vi conduffero una Colonia.

Dopo la rovina dell’Impero Romano: Bologna fu foggetta ora i Longobardi,

ora agl’ Efarchi di Ravenna; offendo poi ritornata fotto gl’ Imperatori di

Occidente ai tempi di Carlo Magno, e de’ fuori fuceffori, nel paffare che

fece la fede dell’Impero di Francia in Alemagna, gl’ abitanti di Bologna fi

mifero in libertà, ad imitazione dell’ altre Città di Lombardia.

Non godè però lungo tempo di tal fortuna, poi che le fazzioni de’ Lambertazzi,

e Geremia gli fufcitarono delle guerre così inteftine, che durarono longo

tempo, onde per liberarfene, i Bolognefi ricorfero al Papa. 

Ma trovandofi la Sede Apoftolica in Avignone, ed offerendo nella Chiefa Cattolica 

feguiti de’ Scifmi, la Città tiranneggiata da i Pepoli, Vifconti, e Bentivogli, 

fini che fi fottopofe la protezzione del quale i fuoi abitanti vivono felici (e uno 

poco ubriachi…). 

Quesfta Città è fituata nel mezzo della via Emilia, alle radici de’ Monti Apennini,

che gli ha a Mezzo Giorno, la Romagna all’Oriente, li Ferraree al Settentrione, e 

il Modanefe all’Occidente; ella ha dodici porte, e cinque miglia di giro, oltre due 

miglia di lunghezza, e un miglio di larghezza; Raffomiglia ad una nave, della 

quale la Torre degl’ Afinelli n’ è l’arbore.

Non è circondata da altro, che da femplici muraglie di mattoni, fenza alcuna

fortezza, ciò, che i PAPI hanno accordato a’ Bolognefi. 

(Itinerario d’Italia di Francesco Scotto MDCCXLVII)

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VIAGGIO NELL’ALTRO MONDO

Ero a Berlino nell’agosto del 61.                                   9iuj78u.jpg

Non c’era ancora

il muro.

Andai a passare

la domenica

‘dall’altra parte’.

Il tempo era

incerto,

ogni tanto uno

scroscio di

pioggia.

Scesi alla

Friedrichstrasse,

dieci minuti di treno.

Accanto a me sedeva un anziano signore dalla giacchetta di alpaga: fumava un sigaro,

aveva voglia di chiacchierare, cercava di rendersi utile:’Vede quello? E’ l’ospedale della

Charité. Lì operava il famoso Sauerbruch, un genio. Aprì la pancia anche a Hitler.

Quell’edificio distrutto era il Reichstag. Rovine, sempre rovine’.

Mi fermai, per dare un’occhiata ai giornali, al caffè del Presse Club.

Nella Berliner Zeitung c’era Togliatti che sorrideva accanto a Granzotto, e un articolo

illustrava la nuova sede de l’Unità. Un opuscolo era dedicato alle conquiste delle donne

cinesi, una rivista spiegava le meraviglie della Bulgaria. Quando chiesi il conto, la

commessa mi pregò di mostrarle il passaporto. Voleva controllare se avevo cambiato la

valuta regolarmente.

Sulla Sprea passavano carichi di sabbia o di carbone. Qualche pescatore buttava la lenza

nell’acqua cupa: sotto un ponte della ferrovia faceva la guardia, col mitra a tracolla, un

milite della Volkpolizei. Pareva un giorno di novembre, l’aria aveva i tremori dell’autunno,

le vetrine dei negozi quasi vuote erano ancora più malinconiche.

‘La mia bottega è chiusa il mercoledì’, avvertiva un cartello, e l’insegna diceva che il

proprietario, non ancora collettivizzato, tagliava barba e capelli dal 1908. ‘La mia bottega’:

che scritta insolita, pensavo, quasi patetica.

Camminavo dalle parti dell’Akademie Platz, le erbacce crescevano sulle gradinate del teatro

di Federico, fumo e stagioni avevano annerito gli antichi muri: brillava appena, tra fregi

dorici, l’oro di qualche parola sconvolta dalle bombe.

Trovai un tassì e dissi di portarmi alla Cancelleria.

Il ‘Bunker’ dove morì Hitler, non c’è più. I russi l’hanno fatto demolire, adesso è diventato

una collinetta, che odora di fieno bagnato, dove è spuntata l’erba medica.

‘Lui se ne è andato’, disse l’autista con confidenza ‘ma per noi non è cambiato gran che.

Sa che cosa si dice? Siamo liberi di fare quello che vogliono. Ma non i può andare avanti.

Mia moglie aveva bisogno di prezzemolo per preparare il brodo, ho attraversato la città,

trenta chilometri, per trovarlo. Sa come chiamano la margarina? Gagarina. E’ gonfia d’acqua:

appena la metti in padella, salta per aria. Una volta o l’altra scappo di là, ma quello che mi

trattiene, è l’idea di finire in un campo profughi: ho due bambini. Trova che la mia automobile

è sfasciata? E’ mia solo per guidarla, appartiene allo Stato. E’, anche lei, reduce della

guerra. Ha vent’anni. Non ci sono ricambi, fa miracoli, poveretta. Senta questa: raccontano

che i russi hanno regalato a Ulbrich una bella macchina, ma senza motore. Tanto, gli hanno

detto, tu vai sempre in discesa. Buona, no?’

Passai un pomeriggio senza emozioni, come un qualunque cittadino della Repubblica

Democratica. Vidi saltellare gli scoiattoli nei viali del Tiergarten, i soldati russi in libera

uscita che si fermavano ad osservare il sonno degli orsi, o il ragazzo che andava a raccogliere,

sui trespoli sparsi un po’ dappertutto, diffidenti e loquaci pappagalli. Anche i militari

sovietici si mescolavano con le famiglie che attendevano il loro turno per ricevere un bicchiere

di birra o una bevanda ingiustamente definita aranciata. 

Alla Marx-Engels-Platz era arrivata la carovana del circo Busch: il direttore mi disse con

orgoglio che era il maggiore della Deutsche Demokratisce Republik, erano stati in tournée

anche in Polonia e in Cecoslovacchia, ma gli incassi non bastavano al mantenimento degli 

artisti e degli animali. 

Finii dalle parti dell’Alexanderplatz, a cercare invano, nei buoi tra le macerie, l’ombra degli 

eroi romanzeschi di Doblin. Non c’erano più gli avventurosi straccioni e le birrerie dalle 

quali uscivano fumo di sigari e suoni di chitarre e di fisarmoniche, ma solo la composta 

tristezza di qualche passante, marito e moglie, coi vestitucci dozzinali, e un bambino,

tra le braccia, addormentato.

Quel paesaggio è profondamente mutato. 

Pochi giorni dopo, Ulbricht dava un ordine, e i Vopo piantavano i paletti e alzavano il filo

spinato e le torrette di osservazione, muravano le finestre degli edifici sul confine, bloccavano

ogni uscita.

Se dalla RDT è impossibile uscire, non è semplice neppure entrare. 

Ho impiegato quasi un’ora per i controlli di polizia. Bisogna denunciare anche la macchina 

fotografica, ed è proibito introdurre giornali. Una guardia, con un aggeggio munito di specchi,

ispeziona perfino il telaio dell’automobile.

Non si sa mai.

‘Sa che cos’è una sardina?’ mi raccontava un loquace autista di Berlino-Est, un brav’uomo esente

da preoccupazioni ideologiche. ‘E’ una balena sopravvisuta al comunismo’. Questa l’aveva 

messa in giro, dicono i teatranti, niente meno che Bertolt Brecht. Chiede il capo cellula:

‘Compagno Meier, perché non ti abbiamo visto all’ultima riunione?’. ‘Non sapevo che fosse

l’ultima,’ spiega Meier, ‘altrimenti ci sarei stato sicuramente’.

L’ironia delle storielle colpisce certi aspetti della vita quotidiana e del carattere dell’uomo 

germanico, sia di qua o di là dal muro, si esercita su passioni costanti, come, ad esempio,

l’ossequio per l’autorità. 

C’è un signore che in un giorno caldo d’estate, il cielo sgombro di nuvole, non tira una bava

di vento, va in giro con cappotto e ombrello, e si giustifica:’La radio ha annunciato che a

Mosca piove e fa freddo’.

Ancora: tre cronisti, un russo, un cinese e un tedesco si trovano attorno a un tavolo per 

discutere. A un tratto il sovietico si sente pizzicare da UNA CIMICE, la prende e la butta via, il 

cinese, irritato ma riflessivo, la infila nell’orlo della tunica:’Può sempre servire’; il tedesco 

obbediente, la lascia fare: ‘SE C’E’ VUOL DIRE CHE IL PARTITO E’ DACCORDO,

   E IL PARTITO HA SEMPRE RAGIONE….’

(Enzo Biagi, Germania)

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CHI E PERCHE’

Oggi ripensando a quegli avvenimenti, avendo a disposizione delle nuove informazioni e dei

nuovi punti di vista, è possibile mettere insieme un quadro ufficioso di ipotesi su quanto

accadde al presidente Kennedy e sul perché accadde.

Credo che quello che è successo nella Dealey Plaza di Dallas il 22 novembre 1963 sia stato un

colpo di stato. Ritengo che sia stato proposto e programmato con notevole anticipo da fanatici

anticomunisti membri della intelligence degli Stati Uniti; che sia stato realizzato, molto

probabilmente senza un’approvazione ufficiale, da individui della CIA appartenenti agli

apparati delle operazioni segrete e da altri collaboratori esterni, non appartenenti direttamente

alle agenzie governative, e mascherato da gente con le stesse opinioni politiche dell’FBI, del

Secret Service, del dipartimento di polizia di Dallas e degli ambienti militari; e penso infine

che il loro scopo sia stato quello di impedire a Kennedy di portare a termine la sua politica

di distensione con l’Unione Sovietica e con Cuba, di mettere fine alla Guerra Fredda.

Un colpo di stato viene definito come un ‘operazione improvvisa, attraverso la quale un

individuo o un gruppo, solitamente con un ricorso limitato della violenza, si impadronisce

dei poteri governativi senza conformarsi alle leggi in vigore nel paese per la sostituzione

dei suoi rappresentanti ufficiali’.

Un colpo di stato per avere successo richiede un certo numero di elementi: un’ampia

programmazione e una preparazione adeguata da parte dei sostenitori; la collaborazione della

guardia pretoriana; una seguente operazione di diversione e di mascheramento; la ratifica

dell’assassinio da parte dei nuovi poteri governativi subentranti; la diffusione di elementi di

disinformazione attraverso i media. Se il concorso di tutti questi elementi ci suona abbastanza

familiare, è perché è esattamente quello che è successo quando John Kennedy venne assassinato.

Non ho un’idea precisa di quando la programmazione e la preparazione dell’operazione possa 

aver avuto inizio. Potrebbe essere stato tanto all’inizio quanto verso la fine del 1960, quando la

CIA preparò un DOSSIER PSICANALITICO sul presidente. Un lavoro di questa natura non 

contemplava certamente l’assassinio del presidente, ma il suo scopo era quello di aiutare la

CIA, o alcuni elementi interni, a raggiungere il loro scopo di influire sulla sua politica estera.

Probabilmente fu solo in seguito, quando Kennedy prese la decisione di arrivare alla

distensione e quando i normali mezzi per controllarne la politica fallirono, che l’assassinio

divenne un’operazione da considerare per quegli elementi della CIA che volevano difendere

gli assetti consolidati della Guerra Fredda.

Chi ci fosse davvero nel complotto non è chiaro.

Ma certamente Guy Banister fin dall’inizio era stato coinvolto in discutibili attività collegabili

con l’assassinio. I membri della sua organizzazione FRIENDS OF DEMOCRATIC CUBA 

furono i primi a impersonificare Lee Oswald, quando tentarono di comprare i dieci camioncini

per l’INVASIONE ALLA BAIA DEI PORCI dal rappresentante Bolton Ford di New Orleans 

nel gennaio del 1961.

(Jim Garrison, JFK Sulle tracce degli assassini)

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I TESTIMONI

Affermare che ‘nessuna prova                          897878.jpg

attendibile può far pensare’

che gli spari siano partiti

da un luogo che non sia

il Deposito dei libri significa

ignorare le testimonianze

della signorina Mercer,

di Bowers, di Price,

di Holland,

dell’agente Weizman

e del ferroviere che parlò

con lui.

Eppure le dichiarazioni

di queste sei persone

collimano e si confermano a vicenda. Il fatto che queste testimonianze

siano così concordi significa che il loro denominatore comune è certamente, se non lo 

spergiuro, la verità. 

Il fatto che la Commissione abbia respinto con decisione apparentemente arbitraria queste 

testimonianze torna più a danno della Commissione stessa di quanto non infirmi l’attendibilità

dei testimoni, perché di fatto un altro centinaio di pesone era convinto che i colpi fossero 

partiti dalla collinetta. La Commissione conosceva i nomi di almeno 266 individui presenti 

sul luogo del delitto, 259 dei quali erano in grado di testimoniare. 23 comparvero davanti ad

almeno un membro della Commissione; altri 58 furono interrogati da un avvocato della 

Commissione stessa; e altri 123 dalla polizia di Dallas, dall’ufficio dello sceriffo della

contea, dall’FBI o dal Servizio Segreto. 55 persone di cui si conoscevano i nomi e che si erano

trovate sul luogo del delitto non sembra siano mai state interrogate dalle autorità locali o

federali. 

92 testimoni su 124 affermano, esplicitamente o indicando la direzione verso la quale

guardarono o corsero, che era stata la collinetta e non il Deposito dei libri il punto dal 

quale erano partiti gli spari. 58 testimoni complessivamente affermarono che si era 

sparato dalla collinetta, e almeno altri 34 corsero in questa direzione o volsero comunque ad

essa la loro attenzione nel momento in cui sentirono sparare. 

La Commissione e i suoi investigatori non chiesero a 21 di loro da dove ritenevano fossero

partiti i colpi. Gli altri 13 quando furono interrogati dissero di non essere sicuri o di non

potere precisare la provenienza degli spari.

A parte Lee Bowers, che assistette alla scena da una torre oltre la palizzata, i testimoni che

meglio potevano osservare la zona cintata erano quelli che si trovavano sul cavalcavia della

ferrovia sopra Elm Street. Mentre s’avvicinava il corteo c’erano sul ponte 13 ferrovieri e 2 

poliziotti di Dallas, e la collinetta era alla loro sinistra. Nessuno dei ferrovieri fu invitato

a presentarsi alla Commissione Warren, ma 4 furono interrogati da un avvocato della

Commissione e 9 da agenti dell’FBI. 5 di loro dissero che i colpi venivano dalla collinetta e

altri 6 che quando avevano inteso sparare avevano subito rivolto la loro attenzione alla

collinetta stessa. 

Vale la pena osservare che nessuno di questi 13 uomini, che pure erano i testimoni più 

vicini alla collinetta, disse di aver pensato che i colpi fossero partiti dal Deposito dei libri,

mentre 11 di loro affermarono esplicitamente o implicitamente che secondo loro il tiratore

si era appostato nell’area cintata sopra la collinetta.

S.M. Holland raccontò a un rappresentante della Commissione che al momento degli spari

‘si levò da sotto quegli alberi uno sbuffo di fumo a un’altezza di circa due metri da terra.

Dal punto dove mi trovavo lo si poteva vedere bene’. 

In una dichiarazione firmata il giorno del delitto Holland disse:’ Guardai verso il porticato e

gli alberi e vidi uno sbuffo di fumo proveniente dagli alberi’. Aggiunse anche che ‘lo sbuffo 

di fumo che vidi veniva sicuramente da dietro il porticato ed era passato attraverso gli alberi’.

Altri 6 uomini che si trovavono sul cavalcavia videro del fumo nello stesso punto.

Il 22 novembre Austin L. Miller affermò in una dichiarazione giurata: ‘Ho visto qualcosa che

mi sembrava fumo o vapore venire da un gruppo di alberi posti a nord di Elm Steet oltre

i binari della ferrovia’. Egli fu interrogato per la prima volta da un avvocato della

Commissione quattro mesi e mezzo dopo il delitto. Il colloquio fu breve essendo durato

solo pochi minuti. L’avvocato non fece domande sul fumo e Miller venne congedato prima

che potesse accennare all’importantissima osservazione fatta nella sua deposizione scritta.

In colloqui filmati, sia James L. Simmons sia Richard C. Dodd mi dissero di aver visto del

fumo vicino ai cespugli e agli alberi all’angolo della palizzata. Simmons disse che il rumore

degli spari ‘veniva da un punto a sinistra e di fronte a quello dove ci trovavamo, cioè dalla

parte della palizzata, e c’era uno sbuffo di fumo che partiva da sotto gli alberi sul terrapieno’.

Dodd disse: ‘Il fumo veniva da dietro la siepe sul lato nord della piazza’. 

Anche Walter L. Winborn e Thomas J. Murphy dichiararono a un investigatore indipendente

di aver visto del fumo tra gli alberi sulla collinetta, e Clemon E. Johnson dichiarò agli agenti

dell’FBI di aver notato del ‘fumo bianco’. 

Persino alcuni che si trovavano davanti al Deposito dei libri fecero capire che i colpi non erano

partiti dall’edificio. 

Ochus W. Campbell, vicepresidente del Deposito dichiarò per esempio: ‘Udii degli spari partiti,

mi sembrò, da un punto nelle vicinanze dei binari ferroviari che ci sono al di là del viadotto

di Elm Street’. Disse anche che non aveva ‘avuto motivo di volgere lo sguardo verso l’edificio

del Deposito dei libri scolastici perché pensavo che i colpi fossero venuti da occidente’.

Alcune delle persone che si trovavono davanti alla palizzata indicarono come possibile fonte

degli spari la collinetta ed eslusero il Deposito. Mary Woodward, un’impiegata del ‘Morning

News’ di Dallas che assistette alla scena da un punto davanti alla palizzata, un po’ sulla

sinistra, scrisse che ‘ci fu improvvisamente uno spaventoso e assordante rumore che veniva

da dietro, leggermente sulla destra’. Ancor più vicino alla palizzata era Abraham Zapruder,

un fotografo dilettante che filmò il delitto. 

In un rapporto su un colloquio avuto con lui da un membro del Servizio Segreto si dice:

‘SECONDO IL SIGNOR ZAPRUDER L’ASSASSINO SI TROVAVA ALLE SUE SPALLE’.

(Mark Lane, L’America ricorre in appello)

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STRATEGIA DI PACE (dopo la guerra fredda…. l’Islam)

Per la prima volta, dopo il 1812, il popolo americano vive su quella che sarebbe la linea del

fronte di una nuova guerra mondiale. Nel 1814, quaranta vascelli inglesi, fuor dal porto di

Baltimora, spararono per 24 ore proiettili da 200 libbre.

‘Spettacolo tremendo a vedersi’, scriveva il vescovo John Carroll.

Ma quello spettacolo sarebbe niente al confronto di una città che salta per aria in una nube

nucleare, dopo una sola bomba all’idrogeno lanciata da un sottomarino sovietico. 

Oggi le nostre città sono il centro del bersaglio dei missili sovietici, allo stesso modo che le città

loro sono altrettanti bersagli per la nostra Forza Aerea Strategica. Per impedire tale

conflagrazione, occorre un intervento diretto che rompa il circolo vizioso della guerra fredda e

incanali nella sua giusta sede un circolo costruttivo di fiducia reciproca.

Giacché il circolo della paura si alimenta della corsa agli armamenti e dei conflitti politici fra

mondo occidentale e mondo comunista, potrebbe bastare un effettivo progresso rispetto

all’una e all’altra faccia del problema – rispetto alla sistemazione politica di una questione di

primo piano, o rispetto al controllo atomico e al disarmo – per avviare la spinta verso la 

pace, verso quel tipo di consenso a vivere e ad abitare sullo stesso pianeta che il Toynbee

prevede. Secondo questa formula progredire anche rispetto all’altro, purchè riusciamo a 

controllare la causa del circolo vizioso. Avendo queste cose in mente noi dobbiamo sollecitare

ogni possibile accordo per il disarmo, e non quale sostituto alla soluzione di alcune delle 

grandi divisioni politiche – per esempio la Germania, la Corea, il Vietnam, o la Cina – ma

come mezzo per far arretrare dal precipizio della guerra questi e tutti gli altri problemi.

La via per risolverli – l’unica che oggi sia aperta – passa attraverso i processi storici pacifici

di cui parla il Toynbee. 

E’ nostro compito di promuovere al più presto tali processi anche se per la soluzione definitiva

occorrerà l’opera di generazioni, forse di secoli. Alcuni affermano che non serve a niente

trattare con i russi in questi termini, perché i russi non si son mai tenuti, né mai si terranno,

ad accordo alcuno. Ma questo equivale a dire che la guerra è l’inevitabile sorte del genere 

umano. Lenin soleva dir questo, prima che la guerra significasse annientamento di popoli

interi. Lo ripeté Stalin, ciecamente, prima che sul Giappone fosse sganciata la bomba atomica.

Un americano non lo direbbe mai.

Noi crediamo nella ragione dell’uomo e nella possibilità di un’evoluzione pacifica, e perciò

non rinunceremo mai alla speranza che anche il più duro fra gli uomini politici del Cremlino

possa un giorno vedere la luce, almeno quanto basta per sapere che la guerra, nell’era della

bomba all’idrogeno, non è più un’alternativa dettata dalla ragione.

Esistono, lo ripeto, motivi di speranza. Frattanto noi non dobbiamo trascurare i nostri

armamenti. E non dobbiamo nemmeno lasciare che i desideri generino pensieri fallaci – di 

disarmo unilaterale, di disarmo senza adeguato controllo, o senza garanzie che l’una e l’altra

parte disarmino veramente. Ma non dobbiamo nemmeno permettere che la paura ci distolga

dalla speranza. La storia dimostra che i colloqui sul disarmo falliscono quando le nazioni non

hanno fiducia, l’una rispetto all’altra, che ci sia sincera intenzione di compiere il primo passo.

Anche quel primo passo dev’essere soggetto a controlli adeguati e concreti. Ma anche per far

questo occorre un minimo di fiducia. Quando dico ‘fiducia’ io non voglio dire che per un 

momento solo il Cremlino possa aver rinunciato alla sua meta di dominio sul mondo, o

che sia pronto a rinunciare al suo impero odierno. E nemmeno chiedo al Cremlino di 

credere che noi occidentali abbiamo abbandonato il nostro impegno verso i popoli dominati

dal comunismo, o il nostro desiderio di promuovere la liberazione pacifica di tutti i popoli.

Tuttavia, ammesso che ciascuno serbi intatti quegli obiettivi, noi possiamo anche giungere a

intendere che la pace è presupposto indispensabile dei nostri sforzi in quel senso. 

Naturalmente ciascuna parte presupporrà di vincere la gara. 

Khrusciov senz’ombra di dubbio ci ha dichiarato tale fiducia, ed io ho altrettanta fiducia di 

vedere, in condizioni di pace, la libertà irrompere e diffondersi per gli anni, fino ai nipotini

del capo del governo sovietico. 

Ma fiducia occorre; occorre credere che ciascuna parte saprà vedere quali sono i suoi interessi

nazionali, ed i reciproci interessi della sopravvivenza.  

(Il disarmo, Washington, D.C., 11 dicembre 1959, J.F. Kennedy Strategia di pace)

Prima parte….

http://dialoghiconpietroautier.myblog.it/archive/2010/09/23/strategia-di-pace.html

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LA COMMISSIONE

FERITE DA PROIETTILE                                           8978678.jpg

1) Si nota una vasta e

irregolare mancanza di

cuoio capulluto e

di ossa craniche

sulla destra,

interessanti

particolarmente

l’osso parietale e

le regioni temporale

e occipitale.

In queste regioni si

nota una mancanza di

cuoio capelluto e di

ossa per circa 13 centimetri

lungo il maggior diametro.

Dai margini irregolari della summenzionata ablazione cranica si notano lacerazioni in forma

stellata che penetrano nel cuoio capelluto più o meno intatto:

a) Dal margine inferiore destro temporale-parietale all’orecchio destro.

b) Dal margine parietale anteriore sino a quasi 4 centimetri sopra il margine orbitale destro.

c) Dal margine sinistro attraverso la linea mediana antero-laterale per una lunghezza di circa

8 centimetri.

d) Dallo stesso punto indicato in -c- per 10 centimetri postero-lateralmente.

Situata nella parte posteriore del cranio approssimativamente 2 centimetri e mezzo alla destra

e leggermente sopra la protuberanza esterna occipitale vi è una ferita lacerata che misura 

15 per 6 millimetri. 

Chiaramente visibile nella sopradescritta grave ferita e da essa uscente vi è del tessuto cerebrale

che a una più attenta ispezione mostra di essere la maggior parte dell’emisfero cerebrale 

destro. Si nota anche che la falx cerebri è vastamente dilacerata.

2) La seconda ferita, presumibilmente di ENTRATA, è quella descritta sopra, situata nella

parte superiore e posteriore del torace destro. Sotto la pelle vi è un’eschemosi che interessa

il tessuto sottocutaneo e la muscolatura. Il TRAGITTO DELLA PALLOTTOLA non può 

facilmente essere determinato. IL FORO DI USCITA è presumibilmente quello osservato

dal dottor Perry di Dallas nella parte anteriore del collo. Quando fu osservata dal dottor

Perry essa misurava ‘pochi millimetri di diametro’ ma POI FU ALLARGATA PER LA 

TRACHEOTOMIA E PERCIO’, AL MOMENTO DELLA AUTOPSIA, IL SUO CARATTERE

ORIGINARIO ERA PERDUTO. Un terzo punto fra queste due ferite può essere determinato

dal fatto che il proiettile toccò l’apice della cavità pleurale destra.

SOMMARIO

E’ NOSTRA OPINIONE, basata sulle precedenti osservazioni che IL SOGGETTO MORI’

A CAUSA DELLE FERITE provocate da proiettili animati da alta velocità e sparati da

persona o persone sconosciute.

I PROIETTILI FURONO SPARATI DA DIETRO E DA UN LIVELLO SUPERIORE A QUELLO

IN CUI SI TROVAVA IL DEFUNTO. 

Non si può stabilire la sequenza delle due ferite.

IL PROIETTILE FATALE ENTRO’ NEL CRANIO DALLA PARTE SUPERIORE DELLA

PROTUBERANZA OCCIPITALE. Una porzione del proiettile attraversò la cavità craniale

in direzione anteriore e posteriore depositando minuscole particelle lungo il suo tragitto.

Le due ferite al cranio, combinate con la forza del proiettile, produssero la frammentazione

delle ossa.

L’altro PROIETTILE ENTRO’ NELLA PARTE SUPERIORE E POSTERIORE DEL TORACE 

DESTRO, SOPRA LA SCAPOLA, E ATTRAVERSO’ I TESSUTI MOBILI delle regioni

sopra-scapolare e sopra-clavicolare alla base del collo. Il proiettile produsse anche contusioni

all’apice della pleura e alla parte superiore del lobo superiore del polmone destro. Il 

proiettile attraversò i muscoli del collo danneggiando la trachea. E’ certo che il proiettile

non colpì nessuna struttura ossea. 

Infine è nostra opinione che la ferita alla testa produsse danni troppo estesi al cervello perché

ci fosse la possibilità che il soggetto sopravvivesse alle sue ferite.

(Rapporto della Commissione Presidenziale sull’assassinio del 35° Presidente degli Stati Uniti

J.F. Kennedy)

                                                               

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STRATEGIA DI PACE

IL DISARMO

Washington D.C. 11 dicembre 1959

Una società assennata non decide mai di commettere un suicidio nazionale.

E invece proprio questa è la sorte che la corsa agli armamenti tiene in serbo per noi, se non

troviamo il modo di arrestarla.

Non tutti sono d’accordo circa il numero dei nostri concittadini che sarebbero uccisi lel prossimo

decennio in seguito a una guerra di missili. Io, che di recente ho udito le dichiarazioni di

scienziati e di esperti – usavano il tono distaccato, statistico che hanno gli scienziati –

riguardo a ciò che accadrebbe nel nostro paese e nel mondo, se scoppiasse la guerra, debbo

dire purtroppo che c’è molto di vero nella battuta secondo la quale la vita è cessata negli

altri pianeti perché gli scienziati di lassù eran più progrediti dei nostri.

Già oggi la nostra capacità distruttiva complessiva basta ad annientare venticinque volte il

nostro nemico: e il nemico potrebbe annientarci dieci volte. Il nemico, e noi assieme a lui,

siamo in grado di sterminare per sette volte la vita sulla terra.

Il carico nucleare di uno solo dei nostri B-52 dicono che sia maggiore, in quanto a potenza

distruttiva, di tutti gli esplosivi usati in tutte le guerre che la storia ricorda. Eppure oggi sono

ancora vaghe le speranze che Stati Uniti o Russia si accordino sul DISARMO UNIVERSALE.

DISARMO: resta un bel modo di dire a cui si appellano l’una e l’altra parte, ma che l’una e

l’altra parte non paiono aver voglia di tradurre in pratica.

Si è ripetuto spesso che le armi sono sintomo, e non causa, di tensione; si è ripetuto che, fin

quando esisteranno situazioni come quella di Berlino, la corsa agli armamenti non potrà non

continuare.

Ma questa, nel migliore dei casi, è una mezza verità.

Le bombe atomiche e all’idrogeno son diventate di per sé una grossa causa di tensione.

Dietro numerosi conflitti politici ci son problemi di equilibrio delle forze militari, problemi

che sorgono dalla necessità di mantenere truppe, o basi aree, o installazioni di missili nucleari

che non sorgerebbero fuor del contesto della corsa agli armamenti.

La verità è che noi ci troviamo in un circolo vizioso: da una parte la corsa agli armamenti, 

dall’altra il conflitto politico. Per noi, questo circolo vizioso delle due grandi potenze, che si

battono per il predominio sul destino dell’uomo, si complica in conseguenza di una dinamica

nuova: quella del comunismo espansivo, armato delle dottrine rivoluzionarie della lotta di 

classe e dei metodi moderni del sovvertimento e del terrore.

Al Cremlino questa lotta per la conquista del mondo è complicata dal carattere contagioso

della libertà – dal fermento, all’interno dell’impero comunista, verso la libertà che tutti gli

uomini vogliono – dall’esempio, dal contrasto possente che l’America e gli altri paesi liberi

presentano ai popoli che soffrono sotto il giogo del conformismo comunista. 

Eppure, in questa lotta fatale, l’una e l’altra parte debbono arrivare ad intendere che, prima

o poi, il prezzo di questa corsa agli armamenti è la morte: per tutte e due.

Il tempo ha logorato e smantellato taluni circoli viziosi che si son presentati nella storia.

Il Tonynbee per esempio ci ricorda ottimisticamente che le guerre, fredde e calde, combattute

fra l’Islam fanatico e il cristianesimo delle Crociate, a poco a poco sono sfociate in secoli di 

armistizio perpetuo, pur continuando l’una e l’altra parte a serbare i propri fini generali.

Comunismo e Occidente, par voler aggiungere il Tonynbee, possono col tempo giungere 

a un tacito accordo di coesistenza, anche se l’uno e l’altro continueranno a sperare e ad

operare in vista dell’estensione del proprio modo di vita per tutto il mondo.

C’è però un difetto in questo quadro ottimistico: oggi gli eventi si muovono assai più in 

fretta, la logica dell’attuale corsa agli armamenti sembra condurre a una collisione, più che

ai lenti mutamenti verificatisi nel Medio Evo. Ai tempi delle crociate occorrevano mesi, 

a volte anni, per traversare il mare, o la terraferma e giungere all’urto fra i due mondi.

Oggi bastano pochi minuti ai tremendi missili con testata all’idrogeno. 

(J.F. Kennedy, Strategia di pace)

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3 X 2

C’erano rose sul sedile                                              989789.jpg

fra Jack e Jackie.

L’interno dell’auto era

di un piacevole azzurro.

L’uomo era così vicino

che avrebbe potuto

rivolger loro la

parola.

Rimase ad applaudire sul

marciapiede.

Una donna gridò

verso l’auto:

‘Hey vogliamo farvi

una foto’.

Il presidente aveva l’aria

estremamente confusa,

la testa piegata a

sinistra.

L’uomo smise di applaudire, ormai immerso nel caos.

Guardava i corpi riversi e avvertiva l’avvicinarsi di uomini armati.

METTIMI IN CONTATTO, BILL. METTIMI IN CONTATTO.

Bobby W. Hargis, su una moto della scorta, della fila sinistra, si rese conto che quelli che

sentiva erano colpi di arma da fuoco. C’era una donna che stava scattando una foto e un’

altra, a circa sei metri dietro di lei, che riprendeva la stessa scena. In questa inquadratura

appariva anche la prima donna. Non riuscì a capire da dove provenissero gli spari, due

spari, ma sapeva che qualcuno era stato colpito nell’auto.

Un uomo gettò il figlio al suolo e cadde su di lui.

Quello è un ex combattente, ebbe tempo di pnsare Hargis.

Il governatore Connally stava scivolando giù dal sedile. La moglie lo afferrò immediatamente.

Hargis si voltò a destra subito dopo aver notato una ragazza con una graziosa giacca che 

correva sul prato verso l’auto del presidente. Girò il corpo a desra, tenendo la motocicletta 

in direzione ovest sulla Elm, e poi il sangue e la materia, la cosa indimenticabile, gli schizzi

di sangue, ossa e tessuto lo colpirono in volto. Pensò che gli avessero sparato. Quella roba

lo investì come uno spruzzo di pallettoni, la sentì urtare contro il casco con un colpo secco.

La gente si era buttata sull’erba. Tenne la bocca serrata, in modo da impedire al liquido

di entrare. 

John era riverso sul sedile centrale.

Nellie Connally lo tirò fra le sue braccia. Chinò il capo su quello di lui. Faceva finta di essere 

lui. Erano entrambi vivi o entrambi morti. Non potevano essere uno e uno. 

Poi il terzo sparo fece schizzare roba ovunque. 

Tessuto, frammenti di ossa, tessuto in mucchietti pallidi, miscuglio acquaso, tessuto, sangue,

materia grigia tutt’intorno a loro. 

Sentì Jackie dire: ‘Hanno ucciso mio marito’.

Avrebbe potuto essere la voce di Nellie, qualcuno che parlava per lei. Credeva che John fosse

morto. Poi lui si mosse lievemente e lei pensò, nello stesso istante, che Jackie era fuori dell’

auto, diretta all’estremità posteriore, ma ora era in qualche modo di nuovo lì.

John si mosse fra le sue braccia. Erano un solo cuore che pulsava. 

SIAMO STATI COLPITI. LANCER E’ STATO COLPITO. PORTACI VELOCEMENTE AL

PARKLAND.

L’auto prese velocità e le cose cominciarono a muoversi rapidamente.

Nellie pensò quanto doveva essere orribile quella scena, che spettacolo tremendo per la gente

che guardava, vedere l’auto sfrecciare con quei due uomini a cui era stato sparato; che orrore,

che spettacolo. 

Sentì Jackie dire:’ Ho il suo cervello nelle mie mani’.

Tutto passava a gran velocità.

L’uomo col maglione bianco che applaudiva vide la materia esplodere dalla testa del

presidente.

Passarono le motociclette.

Spuntarono fuori le armi.

Un uomo sulla seconda auto con un fucile automatico. 

Passò la seconda auto. 

Una moto sbandò e finì sul pendio erboso vicino al colonnato.

Qualcuno con una cinepresa era lì vicino e mirava in quella direzione. 

L’uomo col maglione bianco ora aveva le mani sospese all’altezza della cintura e stava pensando

che avrebbe dovuto buttarsi a terra, sarebbe dovuto cadere proprio in quel momento.

Una luce indistinta intorno alla testa del presidente.

Due schizzi bianco-rosa di tessuto che spuntavano da quella nebbia.

La cinepresa in funzione.

Lee stava per fare partire il terzo colpo, era sul punto di farlo, aveva il dito sul grilletto.

La luce era così chiara da mozzare il fiato.

Ci fu una lacerazione bianca al centro dell’obiettivo.

Uno schizzo terribile, un’esplosione.

Qualcosa di bianco venne fuori dalla testa del presidente. Fu scaraventato all’indietro, 

completamente circondato dalla polvere e dalla caligine.

Poi, improvvisamente, di nuovo chiaro, riverso e immobile sul sedile.

Oh, è morto, è morto.

Lee alzò la testa dal mirino e guardò a destra. C’era un muro bianco di cemento che si estendeva

dal colonnato, poi una staccionata di legno dietro di esso. Un uomo sul muro con una cinepresa.

La staccionata immersa nell’ombra. Vagoni merci sui binari al di sopra del sottopassaggio.

Si alzò in piedi, allontanandosi dalla finestra. Sapeva di aver fatto cilecca col terzo colpo. 

Era andato per conto suo. Non aveva colpito niente. Girò la leva dell’otturatore verso l’alto.

METTIMI IN CONTATTO. METTIMI IN CONTATTO, METTIMI IN CONTATTO.

Stava già parlando a qualcuno di quanto era successo.

Aveva già un’immagine. 

Vide se stesso raccontare l’intera storia a qualcuno, un uomo con il volto rude da texano, 

eppure gentile, comprensivo. Indicava le contraddizioni. Raccontava come era stato persuaso

dai raggiri a far parte del complotto. Si dice vittima? Immaginò un ufficio con uno stendardo,

dignitari in una foto alla parete. 

Tirò indietro l’otturatore, poi lo spinse in avanti, abbassando la leva. Percorse in diagonale il 

pavimento verso la parte nordovest, dov’erano situate le scale. Libri ammucchiati in dieci

scatoloni uno sull’altro. La fragranza della carta e delle rilegature.

Le sirene cominciarono a suonare, le armi cominciarono a comparire.

La ragazza smise di correre verso l’auto. Si fermò e guardò il volto privo di qualsiasi emozione.

Una donna con la macchina fotografica si voltò. Si accorse che qualcuno le stava scattando una

foto. Una donna con una giacca scura aveva una Polaroid puntata su di lei. Solo in quel 

momento capì che era stato sparato a qualcuno. Aveva schizzi di sangue sul volto e sulle

braccia. Pensò, com’è strano, che la donna con la giacca fosse lei, e che era lei la persona a 

cui avevano sparato. Si sentì così sbalordita e strana, ricoperta da schizzi bianchi. Si mise

a sedere con cura sull’erba. Si abbandonò e sedette lì. La donna con la Polaroid non si mosse.

La prima donna sedette sull’erba, mise giù la sua macchina fotografica, guardò quella 

roba incolore sulle braccia. I piccioni giravano vorticosamente sulle cime degli alberi. 

Se le avevano sparato, pensò, doveva stare seduta. 

L’agente Hill scese dal predellino sinistro e si mosse in fretta.

Ci fu uno sparo.

Salì sulla Lincoln dal paraurti, allungando la mano sinistra verso la maniglia di metallo.

Fu un suono doppio.

O furono due spari, oppure uno sparo e un forte impatto, il proiettile che aveva colpito

qualcosa di duro. Voleva arrivare, arrivargli vicino, fare scudo al corpo.

Vide la signora Kennedy farsi verso di lui.

Si stava arrampicando per uscire dall’auto.

Strisciava sul cofano posteriore, le mani appiattite, il ginocchio destro sulla sommità del

sedile. Pensò che stesse inseguendo qualcosa e realizzò di avere visto una cosa volare vicino,

un lampo da qualche parte, qualcosa che era volato verso l’estremità della limousine. La spinse

indietro verso il sedile. L’auto scattò, facendolo quasi cadere all’indietro. Furono nel

sottopassaggio, nell’ombra, e quando riapparvero nella luce, vide Connally coperto di sangue.

Spettatori, bambini, tutti salutavano. Si tenne stretto alla maniglia. Stavano andando

maledettamente veloci. Tutti e quattro i passeggeri erano immersi nel sangue, pigiati insieme

sul pavimento. Si stese sul cofano posteriore.

Fu raggiunto da un pensiero, da una consapevolezza.

Lei stava cercando di recuperare parte del cranio del marito.

Si tenne stretto. Riusciva a vedere proprio dentro la testa del presidente. 

Adesso stavano andando a 130. 

La vista di Raymo venne oscurata per un istante. Fu costretto ad aspettare che il lato della 

limousine passasse accanto al sostegno di cemento. Sapeva che Connally era stato colpito.

Ebbe tempo di pensare: Leon li sta facendo fuori uno a uno. Ebbe la sensazione che la gente

si stesse piegando e sparpagliando anche se non appariva nell’inquadratura del mirino.

Ora l’auto si mosse chiaramente, dividendosi lentamente in quattro. 

Mirò alla testa di Kennedy. 

Era piegato verso sinistra, con gli occhi stretti per il dolore. 

40 metri.

36 metri.

FECE FUOCO.

I capelli del presidente si rizzarono.

Ondeggiarono e volarono via.

Raymo scese dal paraurti e si mise sul sedile posteriore. Frank fece partire l’auto.

Guidò attraverso file di macchine parcheggiate dietro il Depository. Si diresse verso tre vagoni

merci con l’insegna Hutchinson Northern.

Raymo si sporse in avanti.

ATTENTO, AMICO! MA LUI NON DISSE UNA PAROLA.

GIA’ IN MOLTI URLAVANO PER IL BUON LAVORO COMPIUTO…….

(Don Delillo, Libra)

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A DALLAS

(le immagini non seguono fedelmente lo svolgimento degli eventi proposti)

….L’auto bianca che apriva                                     

il corteo svoltò, le MOTOCICLETTE                                                           87878.jpg

svoltarono.

La Lincon passò sotto di lui,

rallentando per girare a

sinistra, dando quasi

l’impressione di ruotare su

un asse.

Tutto era lento e chiaro.

Si abbassò su un ginocchio, appoggiò il gomito sinistro sulla pila di scatoloni e la canna

del fucile sul bordo di una scatola sul davanzale.

Mirò alla nuca del presidente.                                               uyuiok.jpg

La Lincoln si mosse verso la

protezione offerta dalla quercia

a circa venti chilometri all’ora. 

Pronto a sinistra,

pronto a destra.

Vide scintillare nel

mirino telescopico

il metallo dell’auto.

Sparò attraverso uno spazio

tra le foglie.

Quando fu possibile distinguere

di nuovo chiaramente l’auto, il

presidente cominciò a reagire.

Lee spinse la leva verso l’alto, tirò indietro l’otturatore.

Il presidente reagì.

Alzò le braccia aperte.

Improvvisamente ci furono piccioni dappertutto.

Comparvero dalle grondaie e si diressero a ovest.

La detonazione risuonò nella piazza, secca e distinta.

Le mani del presidente                                                        7867567.jpg

erano strette intorno alla

gola, le braccia

piegate all’infuori.

Lee fece scorrere in

avanti l’otturatore,

spingendo giù la leva.

Adesso la Lincoln

procedeva più

lentamente.

Era quasi immobile.

Ferma sulla strada a una

sessantina di metri dal

sottopassaggio, senza alcuna protezione.

Sulla traiettoria.

Raymo scese dalla Mercury truccata nel PARCHEGGIO al di sopra del terrapieno, un po’

più giù della metà di Elm Street.

Una steccionata di legno,                                                               jfk.jpg

fiancheggiata da alberi e

cespugli, delimitava l’area

del parcheggio.

Il paraurti posteriore

toccava la staccionata.

C’erano dieci o dodici

auto posteggiate lì

vicino, molte di più

negli spazi a nord e ad ovest.

Raymo rimase fermo

un momento, ruotando le

spalle. Si tirò su i testicoli,

tre colpetti con la mano sinistra.

La staccionata era alta circa un metro e mezzo, troppo alta perché vi potesse appoggiare

comodamente il braccio sinistro. Si diresse verso il retro dell’auto e si mise in piedi sul

paraurti. Guardò oltre la staccionata e al di là di una striscia di prato. L’auto che apriva

il corteo si avvicinò alla curva di Elm Street.

Frank Vasquez scese dalla macchina dal lato guida.

Portava un Weartherby Mark V, munito di mirino telescopico, caricato con proiettili a punta

morbida che esplodono con l’impatto. Rimase vicino al parafango posteriore finché Raymo

non allungò una mano. Frank gli diede l’arma.

Ritornò al posto d guida.

L’auto sobbalzò mentre vi entrava e Raymo lanciò uno sguardo tagliente all’indietro.

Il rumore della folla proveniente da Main Street era ancora nell’aria, debole, un mormorio

udito per caso da qualche parte, e Frank, con le spalle rivolte alla scena dell’azione, rimase

seduto al volante ad ascoltare. La sua vista si estendeva oltre i cantieri della ferrovia, verso

nord-ovest. Serbatoi idrici dipinti di bianco. Piloni dell’elettricità che si susseguono in

lontananza, monotoni e sinistri. Tutto luce e cielo. Si sentì come se fosse in grado di vedere

fino alla fine del Texas.

Raymo si trovava un po’ più a ovest rispetto al punto in cui le due sezioni della staccionata

formavano un angolo quasi retto. Dalla profonda ombra degli alberi guardava una scena

abbagliata dal sole. Piccoli gruppi che si formavano sull’erba, a entrambi i lati della Elm,

famiglie, macchine fotografiche, come l’inizio di un picnic.

La limousine svoltò nella strada.

La gente sul lato nord della Elm, che dava le spalle a Raymo, si riparava gli occhi dal sole.

Altra gente salutava, Kennedy salutava, applausi, luce del sole, bagliore fiammeggiante

sul cofano della limousine. Una ragazza corse sull’erba. Gli uomini sui predellini. Quattro

uomini appesi ai lati dell’auto di scorta, a soli pochi metri dalla Lincoln blu.

Dallas Uno. Ripete. Non ho capito tutto.

Leon sparò troppo presto, con l’auto che passava sotto l’albero. La detonazione suonò come

una carica inadeguata, leggermente debole, un difetto, polvere insufficiente.

Kennedy reagì tardi, all’inizio senza sorpresa. Le sue braccia si alzarono lentamente, come

un uomo su un vogatore.

L’autista dimezzò la velocità.

Rimase seduto lì.

L’altro agente rimase seduto lì.

Sostavano aspettando che una voce fornisse la spiegazione.

I piccioni schizzarono via.

Raymo sistemò la canna del fucile sulla staccionata.

Fissò saldamente i piedi sul paraurti. L’avambraccio sinistro, che imbracciava il fucile, era

infilato in mezzo alle punte di due paletti. Piegò la testa verso il calcio. Aspettò, prendendo

la mira attraverso il mirino telescopico.

Ferma sull’erba una donna vide la limousine emergere da dietro un cartello della Freeway.

Il presidente si stringeva la gola. Sentì un rumore secco, come il ritorno di fiamma di un’auto,

e realizzò che era il secondo rumore che aveva sentito. Pensò di avere visto un uomo gettare

un bambino sull’erba e cadergli addosso. Non si rese veramente conto di avere sentito il

primo rumore finché non sentì il secondo. 

Una ragazza correva verso la limousine salutando. Il rumore esplose e si smorzò,

dilenguandosi nella piazza.

Tutto ciò non aveva alcun senso.

Il chiarore era così intenso che Lee poté vedersi nell’enorme stanza di scatoloni ammucchiati,

libri sparsi, vecchie pareti di mattoni, lampade nude, una piccola figura nell’ombra, in parte

nascosta.                                                                                         9897867.jpg

Sparò un secondo colpo.

Vide il governatore,

girato a destra,

cominciare a guardare

in direzione opposta,

poi si piegò

all’improvviso.

Una reazione di

sorpresa.

Aveva appreso dalle

riviste specializzate

in armi che si

chiamava reazione

di sorpresa.

Girò la leva verso l’alto, tirò indietro l’otturatore, poi lo respinse in avanti.

ATTENZIONE, PER FAVORE.

Va bene, la prima volta aveva sparato troppo presto, colpendo il presidente alla nuca, da

qualche parte vicino al collo. Fu una sciocchezza a cui avrebbe potuto rimediare.

Va bene, aveva mancato il presidente al secondo colpo e preso Connally. Ma l’auto era

ancora lì, a stento si muoveva. Vide la First Lady chinarsi verso il presidente, che ora si

era lasciato cadere giù. C’era un uomo in piedi che applaudiva al margine del mirino

telescopico.

Lee spinse in giù la leva e prese la mira.

Sentì il secondo bossolo rotolare sul pavimento (…si sentiva, nella sua solitudine chiuso

in quella sala, padrone della situazione…, era finalmente l’uomo che voleva essere…Lee

Oswald…).

(Don Delillo, Libra)

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TOTALITARISMO E STERMINIO

“SIAMO SULL’ORLO                                     giuliano2.jpg

DI UNA

TRASFORMAZIONE

GLOBALE.

TUTTO CIO’ DI CUI

ABBIAMO BISOGNO

E’ LA GIUSTA GRANDE

CRISI E LE NAZIONI

ACCETTERANNO IL

NUOVO ORDINE MONDIALE”

(David Rockfeller)

Nei sistemi totalitari e

imperialistici è presente

l’idea che alcuni

gruppi umani siano

inutili, senza valore o

pericolosi per il potere

dell’Impero.

Per questi motivi, viene approntato un piano per sterminarli.

L’eugenetica americana, già negli anni Venti, aveva attuato diversi programmi eugenetici

elaborati da Harry Laughlin. Nel 1922 costringerà circa 20.000 americani alla sterilizzazione.

Influenzata da ciò,                                                                 786789.jpg

la Germania di Hitler

decise di approvare una

legge simile che porterà

alla sterilazzazione di

350.000 persone considerate

‘degradate’. 

Nel 1937 nascerà negli Usa il

Pioneer Fund, con lo scopo

di permettere alle

ricerche eugenetiche di

avere sempre fondi

disponibili.

Il Pioneer Fund ricevette

ingenti risorse finanziarie dai ricchi appartenenti alla DESTRA

AMERICANA ED ALTRETTANTE DAI REPUBBLICANI.

Alla fine degli anni 20 Margaret Sanger, una femminista con idee politiche radicali, scrisse

un libro dal titolo The Pivot of Civilization, in cui chiedeva ‘l’eliminazione della gramigna

umana’ cioè la ‘sterilizzazione delle razze geneticamente inferiori’, e raccomandava anche

la ‘cessazione della carità’ al fine di ‘non prolungare la vita degli INADATTI’.

Secondo la Sanger occorreva ‘salvare il pianeta’ dalla sovrappopolazione e per far questo

occorreva eliminare le “razze disgeniche” cioè ‘Neri, ispanici, indiani americani’.

Dopo il 1939, la sua maggiore preoccupazione era che ‘le masse dei negri, specie del

sud, si riproducono sventatamente e disastrosamente, col risultato che crescono fra i

negri, ancor più che fra i bianchi, i meno intelligenti e meno adatti’. La Sanger apprezzerà

e loderà la politica razziale di Hitler, vedendola come un grande esempio di eugenetica

messa in pratica. La Sanger suscitò grandi consensi negli Usa ed ebbe diverse onorificenze:

nel 1952 divenne presidente della International Planned Parenthood Federation, federazione

mondiale della contraccezione sotto l’egidia dell’Onu. Anche molti altri autori sosteranno le

teorie eugenetiche. Nella categoria ‘degenerazioni’ si fecero rientrare diverse categorie:

epilettici, stupratori, prostitute, alcolizzati, ninfomani, omosessuali, vagabondi, drogati,

rapitori, pedofili, e altre categorie fino a giungere al progetto di escludere tutti quelli che

non appartenevano alla razza bianca di origine anglosassone. I privilegi dovevano riguardare

soltanto l’americano bianco, biondo e con status socioeconomico alto. Tutti gli altri gruppi

potevano essere costretti alla sterilizzazione. Bastava qualche scompenso o una situazione

di difficoltà per attivare il meccanismo delle sterilizzazioni forzate.

Gli imperi europei e gli Usa avevano dunque posto una netta gerarchia tra i popoli che

avrebbe stabilito la vita o la morte di gruppi umani o intere nazioni. Le potenze coloniali

mostravano di sapere che alcuni popoli sarebbero stati sterminati dal dominio coloniale,

e ciò sembrava del tutto NORMALE in quanto sorretto dall’idea di dover ‘purificare la

razza’. Secondo lo storico Goetz Aly, i motivi principali dello sterminio degli ebrei furono

economici: ‘ L’Olocausto resta inspiegabile finché non si analizza come la più grande

rapina di massa della storia moderna. Dal 1939 al 1945, due terzi del bilancio del Terzo

Reich furono coperti attraverso l’esproprio degli ebrei e il saccheggio dei paesi occupati’.

La Germania dopo la Prima guerra mondiale, era stata umiliata e oberata da un debito

di guerra enorme. L’inflazione toccò livelli altissimi, e molte famiglie tedesche si trovarono

nella totale miseria. Per sollevare l’economia della Germania vennerro accettati i prestiti

e gli investimenti americani, e al contempo si alimentava la superiorità nazionalistica per

poter espropriare tutti coloro che non rientrassero nella categoria ‘pura razza ariana’.

Ciò permise ‘l’arianizzazione’ di parecchie banche e iprese sotratte agli ebrei. Le

ricchezze confiscate arebbero servite a migliorare la disastrosa situazione economica

della Germania. Era esattamente ciò che avveniva nelle colonie, in cui gli indigeni

venivano espropriati di tutti i loro beni e costretti a lavorare con salari bassissimi per 

ingrassare le casse del capitalismo europeo.

Lo sterminio dei popoli può avvenire con metodi diversi rispetto a quelli utilizzati da

Hitler. Ciò che è analogo è il progetto imperiale che si erge al di sopra della vita umana,

e che si avvale dello sterminio di alcuni gruppi per rafforzare e per imporre il suo

potere. La cosidetta ‘globalizzazione’ è un fenomeno già presente nell’economia degli

imperi, almeno da cinque secoli. Estendere il potere degli imperi al mondo intero equivale

ad impoverire alcuni popoli, fino a decretarne lo sterminio. Ciò accade oggi in Africa, e

in alcune zone dell’Asia e del Sud America, in cui milioni di persone sono destinate alla

morte. Nel termine ‘Terzo Mondo’ vengono comprese le aree senza alcun futuro, e in

cui sta avvenendo un vero e proprio sterminio.

Nei sistemi totalitari la guerra è un modo per creare o accrescere la ricchezza, e per uccidere

i nemici. La teoria di Darwin, applicata all’economi,a da’ origine al ‘capitalismo selvaggio’,

in cui un gruppo, considerato ‘più forte o più furbo’, si appropria della maggior parte delle

ricchezze e le utilizza per dominare e per avere privilegi.

Oggi per dominare il mondo e per soggiogarlo completamente non occorre più costruire lager,

organizzare potenti eserciti, oppure pianificare genocidi con gas o massacri, basta la

manipolazione finanziaria e l’imposizione di politiche per la ‘ristrutturazione economica’.

Gli strumenti che permettono il controllo assoluto delle attività economiche e finaziarie

hanno portato alcuni oligarchi all’acquisizione di un potere totalitario, che permette loro di

decidere chi deve vivere e chi deve morire.

(A. Randazzo, Dittature la storia occulta)

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