sarebbe stato
possibile
ottenere il
GENE EREDITARIO,
e che l’aristocrazia
fosse il prodotto,
non della politica,
ma della
selezione naturale.
La trasformazione
dell’intera nazione in
una aristocrazia naturale,
i cui esemplari migliori sarebbero diventati GENI e SUPERUOMINI, fu una delle molte ‘idee’
prodotte dagli INTELLETTUALI delusi dal liberismo, che sognavano di sostituire alle
vecchie classi dominanti una nuova élite con mezzi non politici.
Verso la fine del secolo venne in uso parlare di argomenti politici con termini presi dalla
biologia e dalla zoologia, tanto che nessuno più si meravigliava se uno zoologo scriveva
un articolo su una Visione biologica della nostra politica estera, con la pretesa di aver
scoperto una guida infallibile per gli statisti. E fra i cultori delle scienze naturali era di
moda esporre nuovi metodi, sempre più perfezionati, per la selezione dei più validi in
conformità agli interessi nazionali del popolo inglese.
L’aspetto più pericoloso di queste dottrine evoluzioniste consisteva nel combinare il
concetto dell’ereditarietà con l’insistenza sulla realizzazione personale, che era diventata
così importante per la coscienza borghese del XIX secolo. La borghesia aveva interesse a
dimostrare che i ‘grandi uomini’, non gli aristocratici, erano i veri rappresentanti della
nazione, gli individui in cui si incarnava il ‘genio della razza’.
La superstizione scientifica fornì un’ideale evasione dalla responsabilità politica ‘avvalorando’
l’affermazione di Disraeli che il grande uomo era ‘la personificazione della razza, il suo
migliore esemplare’. Tale atteggiamento trovò la sua conclusione logica quando un altro
discepolo dell’evoluzionismo dichiarò semplicemente:” L’inglese è il Superuomo e la storia
dell’Inghilterra è la storia della sua evoluzione”.
Una caratteristica del pensiero razziale inglese e tedesco è che esso nacque fra gli
INTELLETTUALI borghesi, non fra la nobiltà, che scaturì dal desiderio di estendere i criteri
di condotta aristocratici a tutte le classi e fu alimentato da un sincero sentimento nazionale.
Così anche l’esaltazione che Carlyle fece del genio e dell’eroe corrispondeva più alla tipica
mentalità di un ‘riformatore sociale’ che a quella di un ‘padre dell’imperialismo britannico’,
un’accusa che molto giustamente gli fu rivolta. Essa gli procurò un vasto pubblico sia in
Inghilterra sia in Germania, e aveva le stesse origini del culto della personalità praticato
dal romanticismo tedesco: l’affermazione dell’innata grandezza dell’individuo,
indipendentemente dal suo ambiente sociale.
Dei fautori di un grande impero coloniale, fra la metà del XIX secolo e l’inizio dell’imperialismo,
nessuno sfuggì all’influenza di Carlyle, ma nessuno predicò una dottrina schiettamente
razzista.
Al pari di quello tedesco, il nazionalismo inglese fu il prodotto di una classe media che non
si era mai interamente emancipata dall’aristocrazia, e perciò racchiudeva in sé i primi germi
dell’ideologia razziale. Ma a differenza della Germania, la cui mancanza di unità rendeva
necessaria una muraglia ideologica che facesse le veci dei confini storici o geografici, le
isole britanniche erano completamente separate dal mondo circostante per mezzo di
frontiere naturali: il loro problema nazionale consisteva nel trovare una concezione dell’unità
fra gruppi che vivevano in colonie sparse al di là dei mari, lontane migliaia di miglia dalla
madrepatria.
(H. Arendt, Le origini del totalitarismo)
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