SAGGEZZA 2

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Definisco la filosofia come il desiderio di elevarsi alla virtù pratica

 o di mantenersi in essa secondo l’aspirazione alla sapienza di per

 sé.

Di questa l’inizio è dato dalla natura, i termini medi dall’esercizio , il

termine dal sapere.

Fausto è avere una buona nascita, l’essere cresciuti ed educati

secondo la giusta legge e i costumi conformi alla natura; è necessario

esercitarsi e crescere sotto la guida dei genitori, dei tutori, e di precettori saggi.

E’ bello inoltre che ciascuno prescriva a se stesso le cose migliori, senza necessitare

di costrizione, e che segua di buon grado coloro che indicano le cose migliori per

l’agire e la conoscenza.

Spesso infatti le buone disposizioni naturali e i giusti modi di vita anticipano

l’istruzione dottrinale, conducendo alla rettitudine, e difettano solo della ragione

direttrice, che è infusa dalla scienza. 

Due sono dunque i generi di vita antagonisti che si contengono il primato,

quello pratico e quello filosofico.

Ma molto migliore sembra essere quello che risulta dal loro contemperamento e

può orientarsi verso ciascuna delle due vie a seconda di ciò che è conveniente 

nelle circostanze del momento.

Siamo nati, infatti, per una attività intellettuale, che chiamiamo prassi.

E dell’intelligenza, quella pratica porta alla politica, quella espistemica alla

contemplazione della totalità; l’intelligenza nella sua generalità comprende queste

due facoltà orientate verso la felicità, che chiamiamo attualità della virtù nella 

sorte favorevole, e non è né soltanto pratica, tale da non comprendere la scienza, 

né teoretica, priva di efficacia pratica. 

L’intelligenza perfetta inclina verso due principi dominanti, alla realizzazione

dei quali è disposto l’uomo, l’uno comunitario, l’altro conoscitivo.

E se anche i modi di vita che risultano da tali concezioni sembrano premere l’uno

contro l’altro (quelli politici distogliendo dalla scienza, quelli contemplativi dalla

vita pubblica e conducendo alla vita ritirata), tuttavia la natura, congiungendone

i termini estremi, mostra che costituiscono una unità, le virtù infatti, non 

sono tra loro in opposizione, ma in una consonanza superiore a qualsiasi 

armonia.

Se uno dunque, cominciando sin da giovane, già per suo conto si accorda con i

principi della virtù e con la divina legge dell’armonia del cosmo, condurrà una 

vita dal corso agevole.

E se qualcuno, che per suo conto esce dalla retta via, si trovi ad avere guide 

migliori, costui potrà raddrizzare la direzione del suo tragitto verso la beatitudine,

come coloro che in nave, trovandosi in sfavorevoli condizioni, attraversano il 

mare sforzandosi, tramite l’arte nautica, di raggiungere una navigazione tranquilla,

ciò che nella vita è la felicità.

Qualora invece non sappia da solo ciò che è vantaggioso , né si trovi ad avere 

persone assennate che lo guidino, a nulla varrà l’abbondanza di beni, la 

stoltezza, infatti, è sempre infelice.

Dal momento che in ogni cosa si deve prima di tutto avere di mira il fine (è infatti

quanto fanno i naviganti quando stabiliscono il porto al quale approderanno o

gli aurighi con il traguardo della corsa, gli arcieri ed i frombolieri con il bersaglio,

in vista di cui si coordinano in ogni parte), di necessità anche alla virtù, come 

ad un arte della vita, deve essere preposto uno scopo o un proposito; mi servo 

infatti di queste denominazioni per ciascuna di esse (per l’arte e per la virtù).

Questo (fine) affermo essere la suprema tra le attività pratiche, il bene perfetto

della vita che i sapienti delle cose umane chiamano felicità.

Quest’ultima nè possono giudicarla secondo verità coloro che sono in una cattiva 

disposizione, né hanno la forza di sceglierla coloro che non la scorgono in piena

chiarezza.

Pagano il fio della stoltezza coloro che assegnano al piacere il rango supremo,

sono (ugualmente) puniti quelli che onorano innanzi tutto l’insensibilità al dolore:

parlando in generale, vengono soffocati in tempestose calamità coloro che lasciano

al benessere corporeo o ad una condizione irrazionale dell’anima la vita felice.

Ne molto più fortunati di costoro sono coloro che pure esaltano il bene morale,

cosicché dicono anch’esso degno di onore, ma poi ritengono ugualmente onorabili

il piacere, l’insensibilità al dolore, le buone passioni primarie, gli impulsi naturali 

e irrazionali o del corpo o dell’anima.

In entrambi i casi commettono INGIUSTIZIA, da un lato riducendo l’eccellenza 

dell’anima e le sue opere ad equivalenza con la perfezione del corpo, dall’altro 

ponendo al vertice il benessere corporeo al posto del piacere dell’anima.

Sia la natura che la divinità disdegnano la mescolanza di queste cose; non

salvaguardando infatti (in questo modo) la maggior dignità del superiore rispetto

all’inferiore.

Ma noi, invece, diciamo che il corpo è strumento dell’anima, l’intelligenza è guida

del resto dell’anima e del di lei involucro, la buona sorte fisica in tutto il resto è

strumentale all’attività intellettuale, qualora voglia essere completa sia riguardo

alle capacità fisiche, sia riguardo al tempo, sia ai mezzi esterni.

( Dedicata ai ‘buoniuomini’)

(I trattati morali di Archita, Bibliopolis)

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SAGGEZZA

Da http://giulianolazzari.myblog.it

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E pertanto ogni uomo deve essere almeno dotato di un eccezionale

autocontrollo: tale uno sarebbe, soprattutto, se fosse più forte del

denaro, di fronte al quale tutti si corrompono, e non risparmiasse

l’anima nell’impegnarsi a favore delle cose giuste e nel perseguire la

virtù, poiché appunto nei confronti di queste due cose che i più perdono

il controllo.

Ed ecco perché patiscono ciò: sono attaccati alla loro anima (se ne hanno una)

perché è appunto nell’anima che consiste la vita; questa tengono cara e

questa vogliono, per attaccamento alla vita e per le abitudini nelle quali sono

cresciuti; sono attaccati al denaro, invece, per tutte le cose che li spaventano.

E che cos’è che li spaventa?

Le malattie, la vecchiaia, le pene improvvise, e non intendo le pene inflitte dalle

leggi, da queste ci si può guardare e difendere, ma quelle come incendi, morti

di congiunti o di animali, o ancora altre sventure che incombono ora sui corpi,

ora sulle anime, ora sui beni.

E’ dunque a causa di tutte queste cose, per avere il denaro con cui affrontarle,

che ogni uomo aspira alla ricchezza.

E vi sono anche altre cose che, non meno di quelle nominate prima, spingono

gli uomini a far denaro: le rivalità degli uni verso gli altri, le ambizioni, il potere,

cose per le quali essi danno grande valore al denaro, perché contribuisce a siffatte

cose.

Chi è uomo veramente buono, invece, non va a caccia della fama con orpelli

estranei e sovrapposti dall’esterno, ma (solo) con la propria virtù.

( Anonimo di Giamblico, La pace e il benessere, Bur classici)

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FOLLIA 2

Da http://pietroautier.myblog.it

    

– Ma quello si è preso una sbornia, dice il fochista Pospischill, – solo una

sbornia, si è scolato la sua razione di rum.

D’accordo. Lasciamolo stare. Tornerà sottocoperta da solo.

Lasciamolo stare.

Ma quando, due ore dopo, Weprecht viene dal quadrato ufficiali dove i signori

hanno ancora una volta discusso il futuro della spedizione senza accorgersi della

follia di Klotz, e quando il comandante ordina di andare a recuperare il cacciatore e

Johann Haller sale obbediente sul ponte, al parapetto Klotz non c’è più, il tirolese

è scomparso.

Quella non era follia.

Quella non era una storia, quello era un congedo.

Il cacciatore e conducente dei cani Alexander Klotz è andato a casa.

Adesso il tempo fugge come non mai.

Ora, che non c’è nemmeno un minuto da perdere, il tempo improvvisamente

vola.

Ed essi lo rincorrono, rincorrono Klotz, che morirà congelato nel giro di poche

ore, se non lo ritrovano.

Quel maledetto passirese!

Uscire con questo gelo in abiti estivi!

Si dividono in quattro gruppi e si precipitano in tutte le direzioni dei punti cardinali;

l’aria li colpisce alla gola come un coltello.

Non fermarsi.

Più veloci! Klotz!

Ma che muoia congelato, quel porco.

Vuole morire congelato! Ma quello è già morto già da un pezzo.

Invece, non lo trovano così.

Dopo cinque ore, finalmente lo rintracciano: lento e solenne, a capo scoperto, con

il volto ormai quasi completamente congelato, Alexander Klotz marcia verso sud.

Lo fermano; cercano di convincerlo; gli gridano addosso dei rimproveri.

Egli però non dice una parola.

Lo riportanoalla nave, lo conducono via.

Non oppone resistenza.

Nella sala dell’equipaggio scongelano il fuggiasco, gli strappano i vestiti di dosso,

gli immergono le mani e i piedi congelati in acqua frammista ad acido muriatico,

lo frizionano con la neve, che è dura come polvere di vetro, gli fanno bere acquavite

e imprecano per la disperazione.

Klotz lascia fare e rimane impassibile.

Poi lo caricano nella sua cuccetta, lo coprono e lo vegliano.

Egli giace lì con lo sguardo fisso, non prende più parte alla loro vita e sostiene gli 

sguardi senza proferire verbo; sta solo disteso e li fissa.

Ora hanno un pazzo a bordo.

Alexander Klotz resterà impietrito per intere settimane.

Talvolta, quando le spinte glaciali dell’inverno li colpiscono, quando i malati

di scorbuto gemono nella febbre e una tormenta di ghiaccio ricorda loro la 

fine dei tempi, essi giungeranno ad invidiare il cacciatore che è così assorto in

se stesso  e sembra non riconoscere più nulla della loro realtà.

( C. Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, Feltrinelli)

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FOLLIA

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Klotz diventa sempre più taciturno.

Nessuno più riesce a confortarlo.

Vuole tornare a casa.

Ma la terra! In fondo hanno scoperto una terra, delle belle montagne.

Ora hanno una terra.

La terra? Ah, questa terra.

Ma le montagne non hanno boschi di abeti né pini silvestri, né abeti nani,

niente. E le valli sono colme di ghiaccio.

A casa vuole tornare, Klotz.

A casa.

E’ un buio pomeriggio di dicembre dell’anno 1873, il freddo è atroce, ed in

quel pomeriggio che il cacciatore Alexander Klotz, appena ritornato con Payer e

Haller da una delle loro escursioni sulla costa, getta via la pelliccia congelata,

i guanti, il berretto di pelo, il copriviso di pelle, getta via tutto poi indossa i

suoi abiti estivi.

Là dove sta andando non ha bisogno di una pelliccia pesante.

Gli inverni a Sankt Leonhard, gli inverni nella Val Passiria sono nevosi e miti.

Klotz svuota la propria cuccetta, poi però lascia lì il sacco di tela con tutti i suoi

averi.

Prende con sé soltanto le cose più preziose, l’orologio con scappamento a

cilindro, che ha vinto all’ultimo tiro a segno in onore del compleanno di sua

maestà, le banconote elargitegli da Payer per particolari servigi prestati al

signor tenente e, infine, un rosario in legno.

Poi, serio e maestoso, Klotz si presenta ai suoi compagni e stringe la mano

a ciascuno: ADDIO!

” Klotz! Sei impazzito?” chiede Haller.

” Addio anche te, Haller”, dice Klotz e sale sul ponte di coperta.

Chi lo segue lo vede ritto al parapetto con il fucile in spalla, immobile in un

quandro, non risponde a nessuno e guarda nel buio, sopra i ghiacci.

Forse lo si deve lasciar stare, Klotz.

Tornerà sicuramente in sé.

Bisogna solo lasciarlo stare.

( C. Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, Feltrinelli)

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