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Definisco la filosofia come il desiderio di elevarsi alla virtù pratica
o di mantenersi in essa secondo l’aspirazione alla sapienza di per
sé.
Di questa l’inizio è dato dalla natura, i termini medi dall’esercizio , il
termine dal sapere.
Fausto è avere una buona nascita, l’essere cresciuti ed educati
secondo la giusta legge e i costumi conformi alla natura; è necessario
esercitarsi e crescere sotto la guida dei genitori, dei tutori, e di precettori saggi.
E’ bello inoltre che ciascuno prescriva a se stesso le cose migliori, senza necessitare
di costrizione, e che segua di buon grado coloro che indicano le cose migliori per
l’agire e la conoscenza.
Spesso infatti le buone disposizioni naturali e i giusti modi di vita anticipano
l’istruzione dottrinale, conducendo alla rettitudine, e difettano solo della ragione
direttrice, che è infusa dalla scienza.
Due sono dunque i generi di vita antagonisti che si contengono il primato,
quello pratico e quello filosofico.
Ma molto migliore sembra essere quello che risulta dal loro contemperamento e
può orientarsi verso ciascuna delle due vie a seconda di ciò che è conveniente
nelle circostanze del momento.
Siamo nati, infatti, per una attività intellettuale, che chiamiamo prassi.
E dell’intelligenza, quella pratica porta alla politica, quella espistemica alla
contemplazione della totalità; l’intelligenza nella sua generalità comprende queste
due facoltà orientate verso la felicità, che chiamiamo attualità della virtù nella
sorte favorevole, e non è né soltanto pratica, tale da non comprendere la scienza,
né teoretica, priva di efficacia pratica.
L’intelligenza perfetta inclina verso due principi dominanti, alla realizzazione
dei quali è disposto l’uomo, l’uno comunitario, l’altro conoscitivo.
E se anche i modi di vita che risultano da tali concezioni sembrano premere l’uno
contro l’altro (quelli politici distogliendo dalla scienza, quelli contemplativi dalla
vita pubblica e conducendo alla vita ritirata), tuttavia la natura, congiungendone
i termini estremi, mostra che costituiscono una unità, le virtù infatti, non
sono tra loro in opposizione, ma in una consonanza superiore a qualsiasi
armonia.
Se uno dunque, cominciando sin da giovane, già per suo conto si accorda con i
principi della virtù e con la divina legge dell’armonia del cosmo, condurrà una
vita dal corso agevole.
E se qualcuno, che per suo conto esce dalla retta via, si trovi ad avere guide
migliori, costui potrà raddrizzare la direzione del suo tragitto verso la beatitudine,
come coloro che in nave, trovandosi in sfavorevoli condizioni, attraversano il
mare sforzandosi, tramite l’arte nautica, di raggiungere una navigazione tranquilla,
ciò che nella vita è la felicità.
Qualora invece non sappia da solo ciò che è vantaggioso , né si trovi ad avere
persone assennate che lo guidino, a nulla varrà l’abbondanza di beni, la
stoltezza, infatti, è sempre infelice.
Dal momento che in ogni cosa si deve prima di tutto avere di mira il fine (è infatti
quanto fanno i naviganti quando stabiliscono il porto al quale approderanno o
gli aurighi con il traguardo della corsa, gli arcieri ed i frombolieri con il bersaglio,
in vista di cui si coordinano in ogni parte), di necessità anche alla virtù, come
ad un arte della vita, deve essere preposto uno scopo o un proposito; mi servo
infatti di queste denominazioni per ciascuna di esse (per l’arte e per la virtù).
Questo (fine) affermo essere la suprema tra le attività pratiche, il bene perfetto
della vita che i sapienti delle cose umane chiamano felicità.
Quest’ultima nè possono giudicarla secondo verità coloro che sono in una cattiva
disposizione, né hanno la forza di sceglierla coloro che non la scorgono in piena
chiarezza.
Pagano il fio della stoltezza coloro che assegnano al piacere il rango supremo,
sono (ugualmente) puniti quelli che onorano innanzi tutto l’insensibilità al dolore:
parlando in generale, vengono soffocati in tempestose calamità coloro che lasciano
al benessere corporeo o ad una condizione irrazionale dell’anima la vita felice.
Ne molto più fortunati di costoro sono coloro che pure esaltano il bene morale,
cosicché dicono anch’esso degno di onore, ma poi ritengono ugualmente onorabili
il piacere, l’insensibilità al dolore, le buone passioni primarie, gli impulsi naturali
e irrazionali o del corpo o dell’anima.
In entrambi i casi commettono INGIUSTIZIA, da un lato riducendo l’eccellenza
dell’anima e le sue opere ad equivalenza con la perfezione del corpo, dall’altro
ponendo al vertice il benessere corporeo al posto del piacere dell’anima.
Sia la natura che la divinità disdegnano la mescolanza di queste cose; non
salvaguardando infatti (in questo modo) la maggior dignità del superiore rispetto
all’inferiore.
Ma noi, invece, diciamo che il corpo è strumento dell’anima, l’intelligenza è guida
del resto dell’anima e del di lei involucro, la buona sorte fisica in tutto il resto è
strumentale all’attività intellettuale, qualora voglia essere completa sia riguardo
alle capacità fisiche, sia riguardo al tempo, sia ai mezzi esterni.
( Dedicata ai ‘buoniuomini’)
(I trattati morali di Archita, Bibliopolis)