IL PESCE SPADA (un pioniere del cicloturismo)(4)

Trentasei ore di diretto mi conducono in un fiato                               berarellimini1.jpg

da Milano a Reggio Calabria; scendo, disimballo

la bicicletta che avevo difesa per precauzione di

quei 1400 km, di ferrovia, e riparto immediatamente.

Sono le 9 del mattino.

I primi venti chilometri corrono presso a poco piani

lungo il mare, costeggiando lo stretto di Messina.

La Sicilia è a circa tre chilometri di distanza: il canale

ha qualche somiglianza col Lago Maggiore. 

Tre grossi vapori solcano lo specchio azzurro lasciandosi dietro una larga scia divergente.

Messina è schierata di fronte, candida nel sole brillante delle Madonie, non tanto alte

da nascondere a sinistra il cono nevoso dell’Etna.

Lungo la spiaggia innumerevoli imbarcazioni da pesca e di piccolo cabotaggio, reti, argani 

per trarre le barche in secco, piccoli cantieri per calafati, lavanderie, qualche rudimentale

stabilimento di bagni, casotti di finanzieri, frotte di ragazzi e ragazze a gambe nude che

fanno il chiasso, pescano colla lenza o raccolgono frutti di mare: una spiaggia formicolante

di vita come quella ligure.

La campagna è ridente, simile a quella dei dintorni di Napoli, con una nota di maggior 

rigoglio. Si è sempre tra aranceti e limonaie in un inebriante acuto profumo di fiori d’arancio,

di cedro, di limone, di bergamotto: sono le nozze della natura.

Il paese, qui, è industriale: numerose e importanti filande di seta, parecchie con una architettura

disadatta di chiese mal riuscite. L’occhio, dalle finestre, vede interni disposti bene, con 

macchine perfezionate. Molti capitali sono d’inglesi, altri – e furono ritirati con jattura grave –

delle banche, massime della Generale.

Di tanto in tanto nel mare, tranquillo e senza increspature appare come un filo bianco di

spuma, che si allunga, si allunga fino a mezzo chilometro contorcendosi come un serpente,

come se un grosso cetaceo corresse colla schiena al filo dell’acqua. E un gorgo, un innocente

gorgo di quelli che ai poeti disoccupati dell’antichità suggerirono la fola di Scilla e Cariddi:

oggi anche le più fragili barchette vi si avventurano senza pensarci più che tanto.

Incontro verso Villa San Giovanni una bicicletta, l’unica che vedrò fino a Salerno.

Messina resta addietro; costeggio di fronte la riviera meravigliosa del Faro: ua miriade di

casette e di paesi lungo il mare si insegue sino alla punta estrema della Sicilia, che 

sembra immergersi nelle onde, come digradando. Soltanto la torre del Faro, col cupolino

che dai cristalli rimanda i bagliori acciecanti del sole, si stacca diritta e affusolata sulle 

acque azzurre come sentinella avanzata. E più avanti, nell’atmosfera infuocata, il gran

dosso di un monte solitario emergente dal mare: è lo Stromboli.

Una donna mi saluta e mi dice: – Venite dall’America?

Evidentemente il mio aspetto da viaggio, che del resto nulla ha di straordinario, le pare

oltremarino. Corro in mezzo a siepi magnifiche di frangola, di rovi in fiore, di ginestre

tutte gialle, di lunghi cespugli di gaggie odoranti. In quell’istante il dolcissimo ritmo di

Lola sembra sprigionarsi da ogni fiore, da mare, dal cielo rovente, dai profumi acuti:

                              Fior di gaggiolo

                    di angeli belli è pieno il cielo…..,

e lo scintillante volar delle ruote sulla strada bianca si accorda così bene coll’ambiente, che

la mia non è una corsa, è….una poesia biciclettata.

Di mezzo in mezzo chilometro, davanti alla spiaggia, a quattro o cinqucento metri da terra

sta ferma una barca, come avamposto in vedetta. Nella barca due o tre rematori pronti a

vogare, sulla prua, ritto, un fiociniere in attitudine di gladiatore che lancia il giavellotto;

nel mezzo della barca è inflitto un palo alto tre metri, alla cui estremità poggiando i

piedi su due denti di legno sta attaccato un uomo che spia.

E’ tutto l’attiraglio per la pesca del pesce spada, che la spia vede in distanza, che i rematori

rincorrono, che il fiociniere trapassa. 

(Luigi Vittorio Bertarelli, Insoliti viaggi, l’appassionante diario di un precursore)

Luigi_Vittorio_Bertarelli.jpg

 

 

 

     

AL POLO AUSTRALE IN VELOCIPEDE (in attesa dello sciopero)(3)

….Wilkye non si era ingannato                  al polo australe in velocipede.jpg

sulla scelta della macchina, per

procedere prontamente e con

piena sicurezza  verso quel

misteroso polo australe, che

fino allora aveva opposto le

sue immense barriere di

ghiaccio agli arditi tentativi

delle navi di tanti esploratori.

Si poteva dire, quasi con

certezza, che egli stava per

sciogliere felicemente la

secolare questione sui

mezzi meglio adatti per

poter raggiungere quel

punto, fino allora mai veduto

da alcun essere umano.

Se le navi avevano fatto cattiva prova, se le spedizioni pedestri erano terminate quasi tutte

con un completo disastro, quella macchina leggiera ma solida, che poteva filare sopra gli

immensi campi di ghiaccio con una velocità superiore a quella dei più agili od ai più

rapidi steamers moderni, poteva riuscire nell’ardua impresa e trionfare pienamente sulla

spedizione inglese che non disponeva che dei mezzi ordinari e assolutamente insufficienti

in quelle regioni del freddo.

Era bensì vero che gli esploratori americani avevano appena allora cominciato il viaggio

e che forse gravi pericoli li attendevano sull’immenso continente polare, il quale poteva

preparare a loro delle tremende sorprese, ma pel momento dvevano essere soddisfatti

ed anche sperare nella buona riuscita della spedizione.

Infatti il velocipede funzionava perfettamente bene e divorava la via procedendo senza

scosse e senza slittamenti, quantunque rimontasse la costa che era erta assai. Le gomme

dentellate pareva che si aggrappassero alla liscia superficie dei ghiacciai e guadagnavano

terreno con tale velocità, che in pochi minuti i tre esploratori si trovarono sulla cima delle

colline.

Volsero gli sguardi verso la costa e scorsero, fermi dinanzi alla capanna, Bisby ed i sei

marinai, che li salutarono per l’ultima volta agitando i loro berretti.

– Addio amici! gridò Wilkye.

Un hurrà fragoroso fu la risposta, poi quei sette uomini scomparvero.

Il velocipede superata la cima, scendeva l’opposto versante, seguendo un burrone ricoperto

di ghiaccio, muovendo diritto verso le immense pianure che si estendevano verso il sud,

fino ai piedi della lontana catena di montagne scorta il giorno innanzi.

In tre velocipedisti, mettendo in opera i freni per impedire qualche pericoloso scivolamento

che poteva produrre dei guasti al motore, giunsero felicemente nella pianura, la quale

scintillava sotto i raggi dell’astro diurno, come un immenso specchio.

La temperatura non era più rigida come sula costa: oscillava fra i 3° ed i 5° centigradi

sotto lo zero, accennando a rialzarsi allo zero, e qua e là si vedevano le tracce d’un

imminente sgelo. Infatti dalle alture cominciavano già a scendere dei piccoli torrentelli

che andavano a perdersi nella pianura e sotto al crostone di ghiaccio che copriva la terra,

si udivano di quando in quando dei muggiti, che parevano prodotti dallo scorrere dei

grossi torrenti. Qua e là s’aprivano poi delle fessure, dei lunghi crepacci che dovevano

però rinchiudersi durante la brevissima notte, e dovunue si udivano crepitii e detonazioni.

Quella pianura o meglio quel deserto di ghiaccio, era però affatto spopolato. Non si

vedeva, su quella candida superficie, alcuna macchia oscura che indicasse la presenza

di qualche foca o di qualsiasi altro animale. Solamente in aria volavano pochi Aenops

aura, puzzolenti uccelli che cadendo vomitavano una tale quantità di sterco, da infettare

l’aria per parecchio tempo.

– Ebbene amici, cosa dite di questo viaggio? chiese Willkye ai due velocipedesti.

– Che se non sopraggiungono delle disgrazie, noi vedremo ben presto il polo, disse

Peruschi.

– Ed io dico che non ho mai viaggiato così comodamente, disse Blunt. Un viaggio di

3000 miglia sui ghiacci!…..Tenterebbe molte persone, signor Wilkye.

(E. Salgari, Al Polo Australe in velocipede)

Da http://giulianolazzari.splinder.com

salgari e motta.jpg

LA BICICLETTA (l’amante segreta)(2)

Bachaumont ricorda pure i                                                    velocipiede.jpg 

tentativi fatti da altri, in Francia,

al principiare del XVIII secolo, con

vetture e congegni diversi,

mossi dalla sola forza

muscolare dell’uomo, e narra

che allora gli inventori

richiesero al Reggente il

permesso di farne….una

esposizione!

Il permesso fu loro negato, ma

non per questo diminuirono

le smanie e il numero degli

inventori, imbevuti di false

teorie e legati alla utopia

dei congegni inutili,

complicati e pesanti.

Nondimeno, sotto

Luigi XVI, qualche altro

parto mostruoso e informe degli inventori potè, se bene fuggevolmente interessare la

frivola Corte di Versailles. Altre esperienze, in questo volger di tempo, si sarebbero fatte

in Italia: a Genova, Padova e Bologna; però nessun nome e nessuna memoria precisa

pervenne sino a noi.

L’Inghilterra, che tanta parte e tanto cospicua ebbe poi nella costruzione dei velocipedi,

ricorda la macchina di certo John Vevers, ed altri minori e trascurabili tentativi. D’altronde,

di tutte queste curiose invenzioni nulla è rimasto. Nulla che potesse dirsi utile e geniale,

non un avantreno articolato e libero, non un ingranaggio, non un principio di meccanica

anche rozza e infantile che la scienza moderna abbia potuto, sia pure trasformandolo e

migliorandolo, studiare e applicare! Ogni pagina della storia del velocipedismo, nel

primo periodo storico, dimostra luminosamente l’assoluta esattezza di un assioma principe

della scienza meccanica, oggi da tutti riconosciuto: una invenzione non vale e non

dura che per la sua semplicità.

Tutti i tentativi che abbiamo finora numerati ci presentano solo dei veicoli a tre, quattro

o più ruote. La costruzione di macchine a due ruote collocate l’una dietro l’altra

veniva a sopprimere molti dei gravi inconvenienti dei precedenti modelli, quali l’eccessivo

peso e i numerosi attriti, ed apriva la via a quella serie di modificazioni per cui i velocipedi

giunsero alla perfezione odierna. A chi per primo sia venuta questa idea non è ben

certo. I célerifères, le draisiennes e gli hobby-horses ne rappresentano però indubbiamente

le prime applicazioni.

Il periodo veramente storico                                                 draisienne3.JPG 

ha pertanto inizio nel 1790,

con la creazione di un nuovo

tipo di macchina che tutti

gli autori sono d’accordo nel

ritenere il capostipite del

velocipedismo.

Ne fu inventore, a quanto si

afferma e si ripete, un signor

de Livrac o de Civrac,

francese, che la battezzò

celerifero.

I celeriferi si componevano

di due ruote di legno poste

l’una dietro l’altra e collegate

mediante spranghe su cui era appoggiato una specie di rozzo cavalluccio, o un leone;

il cavaliere lo inforcava e a forza di spinte alternate dei piedi sul terreno riusciva a

mettere in moto la pesante macchina di legno. L’equilibrio era in certo modo ottenuto

appoggiandosi con le mani alla testa del cavallo o del leone: si dice tuttavia che le

cadute non mancassero. Per lungo tempo il celerifero non subì altri cambiamenti

che quello d’aver trasformato                                      celerifero.jpg

il nome in velocifero (mentre

era detto ‘velocipede’ la

persona che lo montasse), e

lo ritroviamo nelle caricature

degli ultimi anni della

rivoluzione francese, e

sotto l’Impero.

Nel 1800 abbiamo ricordate

– e la data e l’avvenimento

meritano veramente di esserlo – le prime corse velocipedistiche, fatte con celeriferi, ai

Campi Elisi di Parigi. La cronaca parla di vere e proprie scommesse; la modernità si

avvicinava evidentemente a gran passi, con i bookmakers e i totalizzatori….

Altra data storica e memorabile è quella del ’29 Floreale anno 12°’ (19 marzo 1804),

che vide rappresentata in un teatro parigino – il Vaudeville – una commedia intitolata

‘ I Velociferi’. Finalmente, nel 1809, la nuova macchina è anche consacrata alla pubblica

utilità, e viene usata ‘per servizio’ dagli impiegati amministrativi.

Giungiamo ora fino al 1818. Per passare dal celerifero primitivo al velocipede, era

indispensabile che nel campo della tecnica venissero risolti due problemi di capitale

importanza: render mobile la ruota anteriore affinché l’apparecchio potesse convenientemente

diretto; adattare poi ad una delle ruote un sistema di propulsione che rendesse tale

propulsione continua. Logicamente i due perfezionamenti dovettero seguirsi nell’ordine

indicato, poiché l’equilibrio sulla bicicletta è dato appunto dalla mobilità della ruota

anteriore, che permette lo sviluppo delle forze centrifughe necessarie alla stabilità.

Questo principio indispensabile, di rendere articolata la ruota anteriore alla macchina

la libertà di direzione, venne per la prima volta applicato da un barone badese, agricoltore

e ingegnere: Drais de Sauerbron.                                         KarlDrais.jpg

E dal suo nome il nuovo apparecchio venne chiamato

draisienne. In fondo, la draisienne non era che un velocifero 

articolato: il cavaliere sedeva sopra una sella e dirigeva la

macchina mediante una specie di manubrio adattato alla

ruota anteriore. Il barone Drais – a quanto riferiscono

le cronache del tempo – credette veramente di aver fatta

una meravigliosa scoperta, e si dilettò a annunziarla,

urbi et orbi, con non troppa modestia. E come ogni

eccesso chiama reazione, così la prima troppo vantata

draisienne, presentata in pubblico a Parigi, nel giardino di Tivoli, ottenne più che

altro un successo d’ilarità. 

(Umberto Grioni, Il ciclista)

velocipiede2.png