tentativi fatti da altri, in Francia,
al principiare del XVIII secolo, con
vetture e congegni diversi,
mossi dalla sola forza
muscolare dell’uomo, e narra
che allora gli inventori
richiesero al Reggente il
permesso di farne….una
esposizione!
Il permesso fu loro negato, ma
non per questo diminuirono
le smanie e il numero degli
inventori, imbevuti di false
teorie e legati alla utopia
dei congegni inutili,
complicati e pesanti.
Nondimeno, sotto
Luigi XVI, qualche altro
parto mostruoso e informe degli inventori potè, se bene fuggevolmente interessare la
frivola Corte di Versailles. Altre esperienze, in questo volger di tempo, si sarebbero fatte
in Italia: a Genova, Padova e Bologna; però nessun nome e nessuna memoria precisa
pervenne sino a noi.
L’Inghilterra, che tanta parte e tanto cospicua ebbe poi nella costruzione dei velocipedi,
ricorda la macchina di certo John Vevers, ed altri minori e trascurabili tentativi. D’altronde,
di tutte queste curiose invenzioni nulla è rimasto. Nulla che potesse dirsi utile e geniale,
non un avantreno articolato e libero, non un ingranaggio, non un principio di meccanica
anche rozza e infantile che la scienza moderna abbia potuto, sia pure trasformandolo e
migliorandolo, studiare e applicare! Ogni pagina della storia del velocipedismo, nel
primo periodo storico, dimostra luminosamente l’assoluta esattezza di un assioma principe
della scienza meccanica, oggi da tutti riconosciuto: una invenzione non vale e non
dura che per la sua semplicità.
Tutti i tentativi che abbiamo finora numerati ci presentano solo dei veicoli a tre, quattro
o più ruote. La costruzione di macchine a due ruote collocate l’una dietro l’altra
veniva a sopprimere molti dei gravi inconvenienti dei precedenti modelli, quali l’eccessivo
peso e i numerosi attriti, ed apriva la via a quella serie di modificazioni per cui i velocipedi
giunsero alla perfezione odierna. A chi per primo sia venuta questa idea non è ben
certo. I célerifères, le draisiennes e gli hobby-horses ne rappresentano però indubbiamente
le prime applicazioni.
ha pertanto inizio nel 1790,
con la creazione di un nuovo
tipo di macchina che tutti
gli autori sono d’accordo nel
ritenere il capostipite del
velocipedismo.
Ne fu inventore, a quanto si
afferma e si ripete, un signor
de Livrac o de Civrac,
francese, che la battezzò
celerifero.
I celeriferi si componevano
di due ruote di legno poste
l’una dietro l’altra e collegate
mediante spranghe su cui era appoggiato una specie di rozzo cavalluccio, o un leone;
il cavaliere lo inforcava e a forza di spinte alternate dei piedi sul terreno riusciva a
mettere in moto la pesante macchina di legno. L’equilibrio era in certo modo ottenuto
appoggiandosi con le mani alla testa del cavallo o del leone: si dice tuttavia che le
cadute non mancassero. Per lungo tempo il celerifero non subì altri cambiamenti
il nome in velocifero (mentre
era detto ‘velocipede’ la
persona che lo montasse), e
lo ritroviamo nelle caricature
degli ultimi anni della
rivoluzione francese, e
sotto l’Impero.
Nel 1800 abbiamo ricordate
– e la data e l’avvenimento
meritano veramente di esserlo – le prime corse velocipedistiche, fatte con celeriferi, ai
Campi Elisi di Parigi. La cronaca parla di vere e proprie scommesse; la modernità si
avvicinava evidentemente a gran passi, con i bookmakers e i totalizzatori….
Altra data storica e memorabile è quella del ’29 Floreale anno 12°’ (19 marzo 1804),
che vide rappresentata in un teatro parigino – il Vaudeville – una commedia intitolata
‘ I Velociferi’. Finalmente, nel 1809, la nuova macchina è anche consacrata alla pubblica
utilità, e viene usata ‘per servizio’ dagli impiegati amministrativi.
Giungiamo ora fino al 1818. Per passare dal celerifero primitivo al velocipede, era
indispensabile che nel campo della tecnica venissero risolti due problemi di capitale
importanza: render mobile la ruota anteriore affinché l’apparecchio potesse convenientemente
diretto; adattare poi ad una delle ruote un sistema di propulsione che rendesse tale
propulsione continua. Logicamente i due perfezionamenti dovettero seguirsi nell’ordine
indicato, poiché l’equilibrio sulla bicicletta è dato appunto dalla mobilità della ruota
anteriore, che permette lo sviluppo delle forze centrifughe necessarie alla stabilità.
Questo principio indispensabile, di rendere articolata la ruota anteriore alla macchina
la libertà di direzione, venne per la prima volta applicato da un barone badese, agricoltore
e ingegnere: Drais de Sauerbron.
E dal suo nome il nuovo apparecchio venne chiamato
draisienne. In fondo, la draisienne non era che un velocifero
articolato: il cavaliere sedeva sopra una sella e dirigeva la
macchina mediante una specie di manubrio adattato alla
ruota anteriore. Il barone Drais – a quanto riferiscono
le cronache del tempo – credette veramente di aver fatta
una meravigliosa scoperta, e si dilettò a annunziarla,
urbi et orbi, con non troppa modestia. E come ogni
eccesso chiama reazione, così la prima troppo vantata
draisienne, presentata in pubblico a Parigi, nel giardino di Tivoli, ottenne più che
altro un successo d’ilarità.
(Umberto Grioni, Il ciclista)